Mesagne nella storia

Mesagne nella storia

nel '500 ebbe un florido patriziato cittadino

Mesagne agli inizi dell’undicesimo secolo era sotto il dominio bizantino. Nel 1062 la Puglia fu conquistata dai normanni e a quella invasione risale forse la fondazione del “castrum” di Mesagne. Il termine appare per la prima volta nell’opera Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori. Qui si legge che “il duca Roberto conquistò di nuovo Brindisi […] e fece un castrum a Mesagne”. Indipendentemente dall’autenticità di questa cronaca si presume che già dal periodo bizantino esistesse un luogo fortificato o castrum, necessario per controllare questo importante territorio. Nel 1195 circa, il feudo, con il castrum, venne donato ai Cavalieri Teutonici. Da alcuni documenti emanati da Federico II risulta che i mesagnesi avevano l’obbligo di ristrutturare la torre a proprie spese. Manfredi Svevo nel 1256 assediò Mesagne per combattere una lega anti-sveva creata tra Brindisi, Mesagne, Lecce ed Oria. In quella occasione il castrum di Mesagne, benché fortemente devastato, fu usato come base di appoggio per l’assalto a Brindisi. Mesagne fu poi ricostruita dagli Angioini nel 1276.

Lo storico e medico Cataldantonio Mannarino, in un manoscritto di fine Cinquecento, ci tramanda che il nucleo più antico del castello, pericolante, fu abbattuto da Giannantonio del Balzo Orsini intorno al terzo, quarto decennio del ‘400. Al suo posto venne edificato l’attuale torrione, circondato da un fossato profondo due metri e largo ben nove. La torre era dotata di un ponte levatoio, probabilmente situato sul lato meridionale, in corrispondenza dell’auditorium. Infatti le uniche caditoie, le feritoie da cui si facevano precipitare materiali vari per colpire il nemico, sono poste su questo lato. Lo storico tracciò poi una celebre pianta dalla quale si deduce che verso il 1596 il centro storico si sviluppava attorno alla fortezza collocata su un’altura. La città era protetta da una cinta muraria che comprendeva anche 22 torrette difensive.
Ad un osservatore attento Mesagne si presenta come un vero e proprio paradigma per comprendere le dinamiche fondamentali legate all’edilizia e allo sviluppo urbano di una piccola città dell’Italia meridionale tra la fine del Cinquecento e gli ultimi decenni del Seicento.
Mesagne, infatti, con una popolazione di cinquemila abitanti alla fine del Seicento, leggermente incrementata rispetto ai due secoli precedenti, attivò in quel periodo un insieme di meccanismi che ne modificarono profondamente la fisionomia.

Le grandi trasformazioni avvennero ad opera dei feudatari del luogo, del potente ceto dei nobili, del clero e degli ordini religiosi.
Nel XV secolo, durante l’età aragonese, era stato il Principe di Taranto Giannantonio del Balzo Orsini, il più potente feudatario del Regno di Napoli, a voler ampliare il castello. Egli trasformò, dunque, Mesagne, in una città fortezza, erede di antiche tradizioni militari risalenti all’età Normanno-Sveva, quando sulle sue mura e sul suo castello sventolavano gli stendardi dalla croce nera in campo bianco dell’ordine dei Cavalieri Teutonici.

Nel Cinquecento Mesagne ebbe un florido patriziato cittadino, in gran parte espressione di un dinamico mondo imprenditoriale di stampo borghese, che pianificò nuove opere di urbanizzazione e di architettura riguardanti, nel centro storico, la creazione del teatro, dell’ospedale, del monte di pietà, di una nuova piazza, della collegiata ricostruita in gran parte, e la lastricatura delle strade.
Gli artefici delle grandi opere architettoniche, risalenti alla seconda metà del Cinquecento ed ai primi anni del Seicento, furono i mastri ingegneri della famiglia Profilo originaria di Copertino, in provincia di Lecce, ai quali si deve la realizzazione della Mesagne manierista e prebarocca che contempla, tra l’altro, i palazzi dei Resta, dei Gaza, dei Granafei, dei Regina.
In pochi decenni furono edificati numerosi palazzi, caratterizzati da: finestre ricche di modanature, ovvero sagomature architettoniche, e di fregi; cornici a motivi geometrici; portali a bugnato, una tecnica di rivestimento che usa pietre che sporgono molto dalla superficie del muro, a punta di diamante o ad anelli; logge poggianti su mensoloni a volute rovesciate, colonne angolari, doccioni, per lo scarico delle acque piovane, dal significato apotropaico, per allontanare, cioè, gli spiriti maligni; balaustre traforate.

Tra i maggiori manufatti realizzati nella seconda metà del Cinquecento si colloca l’Ospedale dei Poveri. La costruzione prospetta oggi su piazza Criscuolo e fu voluta dall’arciprete della collegiata, Lucantonio Resta, probabilmente per l’inagibilità del più antico ospedale situato alle spalle della chiesa matrice.
Intorno alla metà del XVI secolo fu ampliata la pubblica piazza detta dei Nobili in cui sorgeva il teatro.
Tra le attuali via Marconi e via Manfredi Svevo, in loco della Pistergula, esistevano fornaci dove venivano cotte le tegole che coprivano le abitazioni a “tavolato”. La Pistergula probabilmente doveva essere una porta di piccole dimensioni, da cui si poteva entrare o uscire dalla città, situata nei pressi dell’attuale chiesa di S. Anna.
Nell’attuale piazza Vittorio Emanuele II, nel largo compreso tra Porta Grande e la chiesa dei francescani, alla fine del Cinquecento si trovavano, numerose, le botteghe degli artigiani, conciapelle, maniscalchi e calzolai.

Nel Seicento si verificò a Mesagne, e in tutto il Regno di Napoli, un forte ristagno economico che determinò la crisi del ceto borghese a vocazione mercantile, e la predominanza del clero e degli ordini religiosi.
Durante il XVII secolo sorsero in città, i grossi complessi architettonici legati all’edilizia sacra e si procedette alla realizzazione di nuove chiese e conventi.
All’interno del perimetro murario della città, si abbatterono antichi quartieri, i “vicinati”, per far posto ai nuovi edifici, tra cui il palazzo baronale del principe, le chiese di Tutti i Santi, S. Anna, Santa Maria della Luce, S. Leonardo, e si crearono due piazze dette una del Principe, oggi chiamata piazza del Balzo Orsini, e l’altra del Popolo, oggi piazza Criscuolo.
Queste opere furono quasi tutte progettate e dirette dall’architetto sacerdote mesagnese Francesco Capodieci.

Sul finire del secolo d’oro per l’architettura barocca, Mesagne fu visitata da Giovanni Battista Pacichelli, che ne fece una lusinghiera descrizione.
L’università di Mesagne concesse durante il Seicento, ai cittadini che ne facevano richiesta, la possibilità di lottizzare alcuni segmenti di mura per l’ampliamento di caseggiati.
Lungo tutto il percorso dell’attuale via Federico II di Svevia, sorse il Borgo Nuovo e l’università decise di aprire una nuova porta cittadina che mettesse in comunicazione la città all’interno delle mura, col borgo.
Fu il sindaco Epifanio Ferdinando a volere, nel 1606, l’apertura della nuova porta, scegliendo il punto esatto dove sarebbe stato abbattuto il tratto di mura e le abitazioni ad esse addossate.
Il largo situato dinanzi a Porta Grande non subì modifiche durante la prima metà del Seicento, in quanto era in gran parte occupato dalle fosse granarie che i cittadini utilizzavano per conservare i prodotti cerealicoli.

Nella prima metà del Seicento si rilevano pochi interventi edilizi all’interno della città. Di notevole, si registra la costruzione del complesso del Monte di Pietà, ultimato nel 1626. Elementi architettonici come la colonna angolare, i doccioni per lo scarico delle acque piovane, dal significato apotropaico, per allontanare, cioè, gli spiriti maligni; le elaborate linee delle cornici e le modanature, ovvero sagomature architettoniche, applicate alle ampie finestre presentano molte somiglianze col complesso dell’ospedale Santo Spirito di Lecce.
Nello stesso periodo furono realizzate le case dei mulini, poco distanti dalla Porta Piccola, ad opera dell’università, interessata ad esercitare un rigoroso controllo sulla gabella della farina da cui dipendevano in gran parte le risorse finanziarie della città.
Altri grossi movimenti edilizi si registrano fuori del perimetro delle mura e riguardano la costruzione del complesso dei frati riformati di Santa Maria di Loreto, dei frati paolini di San Rocco e della nuova dimora dei padri celestini.
Le residenze dei nobili riguardavano edifici con numerose stanze al piano superiore, e “posture” e “cellari”, cioè depositi di olio, di vino e di altri prodotti al piano terra, mentre nei sotterranei vi erano i frantoi, detti anche “trappeti”, che macinavano olive nei periodi compresi tra novembre e marzo.

Il vicinato di San Cosimo era prevalentemente occupato, nel Seicento e nel Settecento, dalle case dei cittadini ricchi che avevano costituito una confraternita con sede all’interno della chiesa dei Santi Medici.
L’area, tutt’intorno alla chiesa matrice, invece, prendeva il nome di vicinato della Collegiata ed era occupata a sua volta dai palazzi dei nobili.
Anche il vicinato di San Giovanni, situato tra l’attuale Piazza Commestibili e via Albricci, si caratterizzava per la presenza di palazzi nobiliari, ma vi erano anche piccole abitazioni più modeste.
Le demolizioni di chiese e palazzi, lo sventramento dell’intero vicinato del Pendino, la costruzione della chiesa di S. Leonardo, del complesso delle cappuccine di Santa Maria della Luce, di S. Cosimo e Damiano, della stessa collegiata e della dimora dei feudatari, determinarono nella seconda metà del Seicento la sistematica cancellazione degli edifici più antichi.
Le case situate all’interno della cinta muraria erano quasi tutte coperte con tegole, “ a tavolato”, e venivano dette “case palazzate”.

Le case del vicinato di S. Elia, oggi via Rini e piazzetta dei Ferdinando, erano per lo più di piccole dimensioni, come quelle dell’attiguo vicinato di S. Martino, oggi via Mauro Capodieci, e risultavano in gran parte di proprietà degli artigiani.
Residenti ricchi erano invece quelli che possedevano le abitazioni nel vicinato del SS. Salvatore e della chiesa di Santa Caterina , oggi via Geofilo e via Antonio Profilo.
Intorno al castello vi era invece il vicinato del Pendino, toponimo indicante una località posta su una quota più elevata rispetto ai luoghi vicini, e si caratterizzava per la presenza di abitazioni di modeste dimensioni.

I vicinati di San Biagio e di San Giorgio, oggi via Ronzini, erano ugualmente occupati da “case palazzate” di modesta entità. Il quartiere abitato dai mesagnesi più poveri era però quello di San Cipriano, oggi vico Zambelli, vico Calderoni, vico De Mita, e piazzette Coronei e Caniglia: al suo interno non vi erano dimore di nobili, ma solo semplici scatole murarie con porte e finestre prive di elementi decorativi.
Le case dei popolani si presentavano con l’ingresso dell’abitazione preceduta da pochi gradini, con il sottoscala, o scantinato, posto di lato e con una finestra d’affaccio sulla strada con mensole laterali sporgenti.
Nel quartiere di San Cipriano si vedono ancora oggi le case tinteggiate col bianco di calce che, oltre a dare luce alle anguste stradine, serviva a garantire l’igiene; le fughe prospettiche delle antiche e affascinanti strade con le caratteristiche basole con cui sono pavimentate; i larghi dove si svolgevano i rituali assembramenti estivi che caratterizzavano lo stare insieme del mondo contadino. In alcuni punti insiste ancora la presenza di qualche forno dismesso da pochi anni, mentre sui tetti si scorgono le antiche canne fumarie.
All’interno del perimetro murario della città, vi erano numerosi frantoi che davano lavoro ad un gran numero di addetti alla molitura, e costituivano uno degli aspetti più significativi del rapporto esistente tra la città e la circostante campagna.

Nel Seicento, i mastri esperti nella realizzazione dei frantoi provenivano in gran parte dalla famiglia Martucci, che da padre in figlio si tramandava il mestiere e che era conosciuta anche fuori la città di Mesagne.
Accanto al ceto dei nobili vi era quello degli artigiani, che svolgeva una miriade di professioni e aveva costituito il sodalizio di San Leonardo, erigendo l’omonima chiesa nell’attuale via Santacesaria.
I due influenti sodalizi condizionavano tutti gli aspetti della vita sociale e politica mesagnese, mentre risultava debole il sodalizio dei contadini che aveva scelto per oratorio la chiesa di Mater Domini. Il quarto sodalizio, dove i ceti risultavano mescolati, era quello di S. Antonio da Padova, che aveva per oratorio l’omonima chiesa.
La gravissima crisi finanziaria che attanagliò l’università di Mesagne durante tutto il Seicento impedì di poter intervenire in maniera adeguata per preservare la cinta muraria dai crolli e dalla distruzione.

Tra il Seicento ed il Settecento andò lentamente distrutto l’intero sistema difensivo cittadino basato sul castello medievale, sulle torri, sulle cortine e sui fossati.
Alla fine del Seicento un ampio tratto di mura cittadine fu demolito per far posto alla nuova chiesa di S. Anna voluta dalla principessa Vittoria Capano. Un altro ampio tratto andò perduto nei primi decenni del Settecento per far posto alla strada, detta la muraglia rotta, esistente tra la Porta Piccola e la chiesa di S. Anna.
A partire dal 1683, con la costruzione della chiesa di S. Anna, si continuò ad incidere fortemente sull’antico tessuto urbano e si diede il via ad una politica di sventramento unica per ampiezza nella storia del Seicento a Mesagne.

La grande piazza voluta dai De Angelis coronava l’ambizioso progetto di dar vita ad una Mesagne barocca caratterizzata da una forte valenza unitaria, dettata dalla forte personalità artistica di Francesco Capodieci.
Per realizzare l’ambizioso progetto, riguardante la costruzione di una chiesa e di una piazza maestosa, fu necessario acquistare e demolire una miriade di abitazioni che esistevano nel luogo.
I De Angelis si servirono sempre delle prestazioni professionali dell’architetto Francesco Capodieci il quale ebbe a sua disposizione le più qualificate maestranze leccesi tra cui lo scultore Giuseppe Cino, che a Mesagne lavorò alla realizzazione dell’altare maggiore della collegiata, andato purtroppo distrutto; alla lavorazione artistica dei conci della chiesa di S. Anna; alla progettazione nel 1699 della nuova chiesa della Santissima Annunziata.
Mesagne reca impressi nei suoi monumenti una tale quantità degli elementi caratterizzanti l’arte del 600, da poter essere considerata una delle “capitali” del barocco meridionale.

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