nella verdeggiante Via Beverora
Il tempio e l'annesso convento, tra i più espressivi esempi dell'architettura degli ordini mendicanti, devono le loro fondamenta ai Domenicani giunti in Piacenza nel 1219 tramite frate Bonvino, discepolo di S. Domenico, che edificano la loro fabbrica su un'area non distante dalla chiesa templare di S. Maria al Tempio. Intitolata inizialmente a S. Giovanni verrà poi detta in Canale a ricordo dei canali che un tempo alimentavano gli orti e azionavano i numerosi mulini della zona. Intorno al 1522 la chiesa fu sottoposta a intense modifiche, forse attuate dall'architetto Tramello, che comportarono l'arretramento della parte absidale, la copertura a volte del soffitto (in origine a capriate) e aggiunte decorative sulla facciata. Durante il XVII e il XVIII secoli si abbellirono le pareti interne con stucchi e nel 1730 Giuliano Mozzani realizzò un nuovo altare maggiore. Agli inizi del XIX secolo fu poi eretta in fondo alla navata sinistra, la vasta cappella del Rosario, su disegno dell'architetto Tombae con la consulenza di Antonio Canova. Espulsi i domenicani il complesso subì nel corso dell'Ottocento, alterne fortune che influirono negativamente sulle sue strutture. Nella prima metà del nostro secolo comunque, operazioni di restauro provvidero definitivamente al recupero delle originarie sagome gotiche e rinascimentali. In questa occasione si intervenne anche sulla facciata, inserendovi un rosone a sostituzione di una precedente apertura trifora, decorando a mosaico le tre monofore poste nella parte terminale della facciata a capanna, e chiudendo i due accessi posti ai fianchi del portale mediano. L'interno, a tre navate, è diviso da pilastri cilindrici in laterizio che sorreggono un tetto, a capriate sino alla IV campata, e voltato a crociera nelle rimanenti due. Tra le opere di valore si segnala, a sinistra dell'ingresso, il sepolcro della famiglia ScottiGonzaga (secolo XIV) e, nella navata destra, tra la III e la IV campata, quello in breccia di Verona (secolo XIV) di proprietà degli Scotti, che reca sulla lastra la raffigurazione a bassorilievo di una cavaliere e sul fronte, entro cinque edicole ad arco polilobato, Maria e il Bambino circondati da santi. Nella cappella a destra del presbiterio, presso la porta della sagrestia, è visibile un affresco (inizi del XV secolo) che rappresenta Antonio Scotti davanti al Beato Marcolino da Forlì, interessante opera del pittore genovese Gherardo Garatoli, cognato di Bartolomeo Groppallo, l'autore della grande ancora lignea della Cattedrale. Nei pressi si possono ammirare altri dipinti murali del XV secolo con i santi Pietro e Paolo e Cristo al sepolcro. Le volte del presbiterio vennero invece affrescate dal pittore Sebastiano Galeotti con la collaborazione del quadraturista Francesco Natali (prima metà del XVIII secolo), che palesa nell'andamento rigorosamente architettonico dell'insieme ove si alternano balconcini concavi e convessi, il carattere tipicamente bolognese della sua formazione. Si entra poi nella spaziosa cappella della Madonna del Rosario posta in fondo alla navata sinistra. Edificata a spese della confraternita omonima al principio del XIX secolo, ospita due magniloquenti dipinti neoclassici, l'uno del piacentino Gaspare Landi (1756-1830) illustrante la salita al Calvario, l'altro con la presentazione al Tempio di Vincenzo Camuccini (1771-1844), eseguiti su committenza della confraternita stessa nel 1808. Pur esemplati alla luce della comune poetica neoclassica, cresciuta sulle idee di Winckelmann e Mengs e alimentata dalla statuaria classica e da Raffaello, le due tele ne propongono declinazioni diverse. Quella del Camuccini, educato nell'ambiente romano, si carica di una intonazione solenne e oratoria, corroborata dal forte risalto statuario delle figure, che dà vita a una composizione densa di richiami a Raffaello, a Reni, a Domenichino, a David, e che ha il suo fulcro nel candido panno sul quale il Sacerdote tiene il Bambino, fondale abbagliante per il profilo raffaellesco di Maria. Diversa appare invece la tela del Landi, portavoce di un neoclassicismo affine alle tendenze lombarde, che stempera le rigide proposizioni di Winckelmann, attraverso il recupero della «poetica degli affetti» di matrice secentesca e la morbida pittura di Correggio e Leonardo. Ne nasce un'opera dai chiari accenti sentimentali, esplicati dalle espressioni accorate dei personaggi che attorniano Cristo, oppresso dal peso della croce e doloroso diaframma della intera composizione. Uscendo dalla cappella, e varcando una porta collocata in fondo alla navata destra, si attraversa la sagrestia raggiungendo il chiostro dell'antico convento dei domenicani, oggi solo parzialmente sfuggito alla rovina del tempo. Qui si ritrovano alcuni frammenti di affreschi recuperati di recente e un rilievo sepolcrale dedicato al chirurgo Guglielmo da Saliceto, eseguito nel XVI secolo da un autore affine ai modi dell'Amadeo. Poco più avanti è visibile un altro monumento sepolcrale della famiglia Guadagnabene (1365), ricchi commercianti e banchieri di Piacenza, che reca sul lato anteriore la raffigurazione dell'Agnello Mistico, sormontata da un'edicola a colonnine binate. Sulla sinistra si estende il duecentesco chiostro dei templari, con capitelli romanici.
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