Moroto 26 luglio 2007

Moroto 26 luglio 2007

reportage Uganda

Moroto 26 luglio 2007

Ancora oggi e domani. Poi lasceremo il Karamoja. Ritorneremo a Kampala. Faremo tappa a Lira per due notti. Abbiamo qui, ora, solo due giorni. Il tempo è trascorso, come capita nelle cose più belle, troppo velocemente. Pare si sia arrivati qui solo ieri. Le cose viste, le cose fatte, le emozioni provate ci hanno travolto ad un ritmo incalzante. E le giornate sono scorse così intensamente, così repentinamente, che fatico a credere di essere qui già da oltre dieci giorni. Tante cose, un’unica realtà: quest’Africa. Tanti momenti fissati nella mente, che lì rimarranno. Perché lo hanno chiesto loro, questi bambini, queste donne, questi uomini. Perché non è possibile dimenticare. Il tempo che è passato scandito dai visi, dai sorrisi, dalle carezze. In un crescendo di emozioni, di sensazioni… Si, il tempo. Che è passato troppo in fretta. E che adesso vorrei fermare. Una magia, un incantesimo. Vorrei fermare un giorno. E tenerlo lungo una settimana, un mese, un anno… Ed è fortissima, in questo momento, l’immagine di mio padre. Lui l’Africa l’amava come sè stesso. Ci aveva prima combattuto, in guerra. Poi aveva deciso di starci. E di lavorare qui. Troppe poche volte ho parlato con mio padre. Mi è mancato presto. Troppo presto. Quante cose non ha avuto il tempo di dirmi. Quante cose non saprò mai, ora. Lo ascoltavo con un’attenzione che non ho più usato. Divorava libri. Il mio libro invece era lui. Un libro che non finiva mai, mi auguravo. Poi un giorno ho terminato di leggere quel libro. Avevano deciso che era finito. Non era così, aveva ancora un sacco di pagine. Che mi mancano. Che non leggerò mai. Per me stare qui è stare più vicino a lui, sentirlo. Forse qui ho il modo di riaprire quel libro e riprenderlo da dove ero rimasto. L’Africa, mi diceva, è come l’altra tua metà, quando la trovi non puoi più lasciarla. Aveva ragione. Come sempre. Io lo immagino qui, anzi lo vedo qui. Mio padre tornò in Italia che aveva quarant’anni, o quasi. Ma dentro di sé si era portato questa terra, questa gente. Queste distese, questi cieli, questi tramonti. Lo accompagnavano in ogni sua giornata, in ogni sua azione, in ogni suo pensiero. Mi sembra di capire adesso perché della sua generosità, del suo immenso cuore, della sua sensibilità. Un uomo forte allo stesso tempo fragilissimo. Che non ammetteva ingiustizie, cattiverie, prepotenze. E che per queste soffriva, quasi a dimostrare la sua debolezza, la sua fragilità. Ma non era né debole, né fragile. Quella sofferenza era proprio la sua forza. Quella di vedere con gli occhi di questa gente le loro quotidiane sofferenze. Di sentire sue le atrocità dell’indifferenza, le assurdità dell’arroganza, le brutture dell’avidità. Per questo aveva in sé un elevato, quasi maniacale, rispetto del prossimo. Mi ha insegnato a non giudicare con leggerezza, con quella superficialità che si è soliti usare. Mi ha insegnato il valore della lealtà. E quello della tolleranza. Non quella tolleranza che ti fa accettare l’altro da te diverso. Quella tolleranza che ti fa vedere che nessuno è diverso da te. E mille altre cose, mille altri insegnamenti. Che mi arrivavano non solo dalle sue parole. Che mi arrivavano perché lui era questo. E’ stato ed è la persona più alta, più esemplare, più coerente che abbia mai conosciuto. Non perché era, ed è, mio padre. Solo perché esistono persone così, nel mondo. Una di queste è lui. Io non ne sono minimamente degno allievo, ma per fortuna, lui è là in alto. E’ qui in alto, sopra di me, dove sono ora. Lo sento che mi guida, che mi protegge, che non mi ha mai abbandonato.

Roberto Rossi

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