reportage Uganda
Moroto 24 luglio 2007
L’ospedale di Moroto ha accompagnato le mie solite poche ore di sonno. Una notte tormentata da immagini di pura follia, da urla di disperazione. Eravamo li, io e i miei compagni di viaggio, ieri. Li, a poche centinaia di metri dal centro di Cooperazione e Sviluppo. Li, all’ospedale di Moroto. Ero li dentro, con una parte di me. Un’altra parte era rimasta fuori. E mi sembrava di guardarmi, come guardare un film. Io spettatore e attore, che recitavo la mia parte. E guardavo anche Franca, Roberta, Caterina. Tutti dentro al film, a recitare la loro parte. E vedevo Paolo, Anita, Carolina, Nicolò e tutti gli altri, comparse di un film. E io dentro quel film. E l’altra parte di me rimasta fuori a guardare che si diceva “è solo un film, tra poco finirà, è solo un film”. Quella parte di me che non aveva accettato quella realtà era rimasta fuori dall’ospedale di Moroto, da quell’ascensore per l’inferno. E guardava, aspettando i titoli di coda. Ma non era un film, non c’erano titoli di coda. C’era una realtà cruda, criminale. Come i responsabili di questo stato di cose. Gente che fa morire bambini, donne e uomini. Da queste parti è tanta la fame di cibo. Come tanta è la fame di potere. Esercitata sulla pelle di tutti. Portare una divisa, un grado che stabilisce un’autorità, una superiorità, gioca spesso strani scherzi. A tutte le latitudini. Da queste parti sono scherzi mortali. La polizia qui si muove come in uno stato di guerra. Armati di fucili che mettono in bella vista. Fanno razzie nei villaggi, assaltano auto che malauguratamente passano di qua. Quelle delle ONG, come altre, che portano assistenza, che portano cibo. E portano via tutto. E provocano morte. Sono tanti gli ospedali di Moroto in quest’Africa. Sono tanti gli ascensori con una sola freccia che indica giù, l’inferno. Un viaggio senza speranza, una discesa senza ritorno. Ma oggi, in un’altra Che si apre sulla nostra destra e si distende in una sconfinata pianura. Vediamo sulla terra orme di felini, forse di leopardo, o di giaguaro, o qualcosa del genere. La strada è tortuosa. Non è una novità. Servono quasi due ore per coprire i quaranta chilometri circa di distanza. Si sale e si scende per fiumi in secca. Solo in due scorre acqua, ma non abbondante. Solo qualche mese fa quasi tutti portavano acqua. E ne abbiamo guadati più di quaranta. Anche questi grossi fuoristrada sono messi a dura prova. Sono le dieci passate quando giungiamo a Tapac. La ricca vegetazione copre le montagne che ci circondano. E nasconde i villaggi. Alcuni si intravedono a malapena. Qui ci sono i padri bianchi, un ordine della religione cattolica, forse i primi ad arrivare qui in Uganda. Era attorno al 1880. Nascevano in Francia con lo scopo di evangelizzare i popoli musulmani delle colonie francesi. L’aria che si respira qui a Tapac è fine, leggera, finalmente sana. Respiriamo a pieni polmoni, come potessimo rigenerarli e ripulirli da tutta la polvere che abbiamo fin qui assunto. Siamo ad un’altitudine di 1800 metri. Qui dieci anni fa venne eretta la parrocchia, poi il dispensario presso il quale operano due infermiere ed un’ostetrica. In seguito sorgeranno vari villaggi. Cooperazione e Sviluppo ha portato qui due pozzi d’acqua. Si vedono numerosi animali al pascolo. Non tutti sono dei tepez, la tribù locale. Portano qui gli animali anche dai villaggi a valle, le tribù mateniko, con i quali sono in forte rivalità. I tepez sono un popolo fiero, sono guerrieri, una tribù tra le poche che ancora pratica l’infibulazione. L’ambiente è affascinante, caratterizzato anche dalle costruzioni dei padri bianchi, in tipico stile british, con i mattoni rossi. Tanto graziose quanto incoerenti. I villaggi sono come quelli già visti, con la stessa struttura, non tra i più bentenuti che abbiamo visitato. Una signora anziana ha depositato qualcosa nella sua capanna-dispensa. La osserviamo mentre la richiude. E’ un semplice ma laborioso sistema di intreccio di legni che, ad uno ad uno, si intrecciano, si allineano, si sovrappongono, sigillando l’apertura. Operazione che richiede qualche minuto e che, comunque, l’anziana signora svolge con estrema flemma. Anche questa “magnatta”, il villaggio in karimojong, dispone di piccolo “cral” interno, spazio destinato a piccoli animali, mentre i cral più grandi sorgono più distanti dalle magnatta. Nel dispensario conosciamo Stella, un’infermiera karimojong che ci guida in visita a Tapac. Vediamo una donna che, riversa su un uomo accucciato a terra, emette grossi soffi d’aria con la bocca e contemporaneamente agita vistosamente le braccia e le mani. E’ una pratica di tradizione locale per scacciare via maledizioni e malocchi. Riti di stregoneria ancora qui ampiamente praticati. Visitiamo un nuovo capannone che è destinato ad andare a sostituire il vecchio dispensario, ormai un po decadente. Poi la scuola che sorge in una struttura fatiscente e che, in quanto governativa, tale rimarrà, nei secoli dei secoli. Ospita centoquaranta allievi, dalla prima alla settima. Racconta Michael, il giovane direttore, che buona parte si ferma a dormire li, su stuoie stese a terra, in baracche senza luce. Dietro l’edificio scolastico sorge una piccola capanna con funzioni da cucina per gli allievi. Torniamo alla casa dei padri bianchi e pranziamo. Il sole in alto ha smesso di splendere. Nere e dense nubi si sono fatte minacciose. Ma pioverà domani, dicono i tepez. E c’è da crederci. Hanno imparato a leggere il cielo. A sentire l’acqua. A capire quando arriverà. E sarà festa.
Roberto Rossi
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