con relazione del suo stemma araldico
Taranto è stata riconosciuta provincia in data 23 settembre 1923. Il suo stemma raffigura uno scorpione che regge tra le chele la corona del principato jonico; sul dorso ha effigiati tre gigli. Secondo una diffusa tradizione, sarebbe stato Pirro, mitico re dell'Epiro, a suggerire ai Tarantini l'immagine dello scorpione per lo stemma. Era il tempo della guerra tra la megalopoli magnogreca e Roma; Pirro, che da tempo covava il proposito di crearsi un principato nell'Italia meridionale a spese di Roma e di Cartagine, accettò di buon grado l'invito dei Tarantini a venire in loro soccorso. Sbarcò dunque in Puglia con 25.000 uomini e sconfisse i Romani a Eraclea nel 280 avanti Cristo in quella che passò alla storia come «la vittoria alla Pirro»: vinse, ma subì perdite ingenti. Poi si spinse fin sotto le mura di Roma seminando il panico. Ma questa è un'altra storia. Quella che ci interessa riferisce che il monarca epirota, giunto sulle alture che circondano Taranto e osservando da lassù la città si accorse che la sua conformazione urbana richiamava l'immagine di uno scorpione.Lo riferì agli alleati Tarantini e suggerì loro, come s'è detto, lo stemma; il quale conteneva anche un deterrente psicologico: amici e nemici avrebbero saputo che quei magnogreci erano diventati per tutti pericolosi come uno scorpione. L'idea piacque, e i Tarantini l'accolsero nel loro stemma. Che restò così per oltre diciassette secoli. È del Quattrocento, infatti, l'esemplare più antico di quel blasone conservato a Taranto.
Ma nel 1589 lo scorpione di Pirro comincia ad accusare il peso degli anni e a lasciare il passo a una nuova immagine. Lo si desume dal frontespizio del «De antiquitate et varia tarentinorum fortuna» di Giovan Giovine, edita appunto in quell'anno, e dedicata al famoso arcivescovo Brancaccio. Su quel frontespizio appare uno stemma composito: raffigura un uomo adulto coronato in groppa a un delfino; regge nella mano destra un tridente e nella sinistra uno scudo sul quale è raffigurato lo scorpione. L'uomo è Taras, eponimo di Taranto, figlio di Poseidone dio del mare e della ninfa Satyria. L'immagine è pressoché uguale a quella riprodotta sulle monete magnogreche del periodo di massimo splendore della città. Uno stemma, quello proposto da Giovan Giovine, che è un compromesso tra vecchio e nuovo, ma la nuova raffigurazione ha ormai preso piede. D'altro canto Taras rappresentava i fasti di una città sospesa tra storia e mito e la sua immagine ne era la sintesi senza tempo. Lo scorpione, invece, divenuto stemma all'inizio della lunga decadenza, sembrava simboleggiare la caducità degli eventi storici: le imprese di Pirro e dei Tarantini suoi alleati occasionali avevano ben poco da dividere con quelle di Falanto e dei Parteni; non c'era in quelle imprese il Sublime contenuto nelle visioni di Archita e dei pitagorici, era estraneo a quelle vicende il regale distacco degli dei e degli eroi che avevano contribuito alla grandezza della città. Tra uno stemma simbolo delle vicende umane e un altro che rappresentava il divino, i Tarantini scelsero il secondo.
La comparsa ufficiale della nuova arma civica si ha nel 1665 quando nella cattedrale di Taranto viene completato il cappellone di San Cataldo: sul lato destro dell'altare viene scolpito il nuovo stemma nel quale campeggia Taras. Ma nuovi tempi prendevano forma e sostanza: alla Taranto magnogreca e pitagorica era succeduto il principato assegnato nel 1089 al valoroso crociato Boemondo. Nei secoli successivi, quel principato avrebbe rivissuto i tempi della «polis» diventando un in eludibile punto di riferimento civile e militare dell'Italia meridionale. Ciò avvenne soprattutto nel XV secolo, al tempo di Raimondello Orsini Del Balzo, figlio cadetto del principe di Taranto che, dopo una giovinezza condotta a girovagare e a guerreggiare, succedette al padre. Ma se Raimondello divenne il governatore più potente e illuminato dell'Italia meridionale, lo dovette per buona parte al suo matrimonio con Maria d'Enghien, contessa di Lecce, che gli portò in dote immensi territori e un'autorità indiscussa guadagnata fronteggiando eventi spesso insostenibili per una giovane donna. Le proprietà dei due sposi comprendevano le attuali province di Taranto, Brindisi e Lecce; è in quel periodo che si comincia a parlare di Terra d'Otranto come entità geografica e storica omogenea. In questa regione si sintetizzavano vicende millenarie che si erano intrecciate in tutto il bacino del Mediterraneo e aspirazioni che accomunavano i Magnogreci e i Messapi di ieri divenuti Jonici e Salentini.
I secoli avrebbero affinato le singole specificità, non le avrebbero annullate; le città avrebbero preso strade diverse e adottato modelli differenti di sviluppo, ma l'identità sarebbe rimasta integra. Tuttavia quel grande territorio, nato dal matrimonio tra Raimondello e Maria e divenuto stato potente e autorevole con loro figlio Giovanni Antonio, non poteva continuare ad essere amministrato da un potere accentratore; d'altronde le specificità emergenti dovevano essere indirizzate rigorosamente per potersi trasformare in risorsa. Lecce intellettuale e agraria non poteva rappresentare le esigenze di Taranto marinara e mercantile. Da queste premesse nacque l'esigenza dell'autonomia provinciale, che, come si è detto, arrivò solo nel 1923. Si pose subito, perciò, il problema dello stemma. Taranto aveva sempre avuto, durante tutta la sua esistenza, la dimensione politica di città-stato, e ora si avviava a diventare città-provincia. Non si poteva ignorare la circostanza. Ed ecco tornare alla luce, dopo secoli, l'antico stemma, quello suggerito da Pirro, ma con nuove motivazioni: non più arma araldica destinata a terrificare. gli avversari, nè simbolo di vicende umane limitate nel tempo, ma segno di una continuità ideale di storia e di civiltà. Come dire che Taranto, quella di Taras e di Falanto, di Archita e della perfezione del Numero, non aveva mai cessato di vivere.
testo di Antonio De Pascali da La Provincia di Taranto da www.provincia.taranto.it
|