briciole di storia ...a tavola
A differenza della rivale Venezia, il cui retroterra permette lo sviluppo di una ricca agricoltura e di una fiorente pastorizia, Genova non può che praticare la vita del mare per nutrirsi: per importare e anche per esportare i frutti dei suoi commerci. I genovesi trafficano con l'Oriente, con la Sicilia, la Sardegna, Napoli e la Maremma, con la Corsica, il Piemonte e la Lombardia, attraversando i mari e, per quanto possono, praticando i valichi appenninici meno impervi. La città è autosufficiente per quanto riguarda i prodotti della pesca, e anche per l'olio e il vino, una parte dei quali può anche essere esportata, tranne che nei periodi di crisi economica. Ortaggi, frutta e agrumi vengono ricavati con fatica dai terrazzi strappati ai fianchi della montagna, come tutt'ora può vedersi sulla riviera di Levante. Si importano il grano, il sale, elemento indispensabile non solo per la cucina, ma anche per la conservazione di pesci, carni e formaggi. Si importano le carni salate e il bestiame vivo, anche se sulle tavole dei genovesi si servono soprattutto le carni degli animali da cortile. La città è schiva e frugale, i costumi sono severi, è una mentalità che finirà per accreditare lo stereotipo del ligure "avaro", tuttora diffuso nel mondo. Esistono significativamente alcuni documenti nei quali le autorità cittadine pongono limiti alle quantità e ai tipi di pietanze che ai genovesi si è concesso di consumare, anche nelle feste e nelle circostanze eccezionali, inoltre nei secoli successivi le condizioni di vita miglioreranno e la cucina si raffinerà.
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