I pellegrinaggi nel Cilento

I pellegrinaggi nel Cilento

itinerari religiosi

I pellegrinaggi sono una grande occasione di incontro tra micro-culture, a volte tra loro lontane, ma che trovano periodicamente una feconda possibilità di scambi culturali. Le persone che ne sono protagoniste esprimono inconsciamente quanto di autentico è rimasto nel loro animo, legato anche alle radici e alla memoria di tempi lontani che sembrano rivivere tramite i riti e la gestualità, sia sacra che profana.

Di solito i santuari, meta dei pellegrinaggi, sono situati sulla vetta di una montagna, raggiungibile dopo un'ardua salita a piedi. L'altura mette il pellegrino in comunicazione immediata col celeste e in condizioni di gustare la presenza del sacro - sulla montagna si è più vicini a Dio, la salita purifica... - (Si può ricordare come archetipo l'ascesa di Mosé al Monte Sinai).

Ogni pellegrinaggio reca il doppio rito del salire e dello scendere dalla montagna, come memoria dell'antichissimo uso della transumanza - si sale con le greggi in primavera e si ridiscende in autunno -

Durante la salita, lungo itinerari segnati da secoli - come appunto i tratturi o i sentieri per la transumanza - le compagnìe (folti gruppi di pellegrini) sostano in punti prestabiliti per riposarsi. Sono questi i momenti nei quali l'animo popolare si esprime nelle musiche tradizionali, di solito tarantelle alla cilentana o lucane, ballate al ritmo delle zampogne e, più spesso, dell'organetto e del tamburello, che hanno ormai sostituito i vecchi strumenti musicali cilentani, la chitarra battente e il fruschariéddo (zufolo di canna).

Va notato che nei pellegrinaggi la musica e il canto popolare si esprimono più liberametne in quanto la religiosità è meno controllata dalla gerarchia ecclesiastica e sembra staccarsi dai canoni ufficiali. Ma è come vivere un'illusione destinata a spegnersi nel giro di qualche ora, in quanto il ritorno, anch'esso accompagnato da musiche e canti, immette di nuovo nei cicli naturali della vita.

I testi dei canti sono per lo più in un italiano aulico misto a frasi dialettali; la musica perde in parte il ritmo alla cilentana, per acquisire le cadenze tipiche della Lucania. Non di rado alcuni pastori eseguono delle pastorali con la zampogna e le ciaramelle, testimoniando così la compresenza della cultura pastorale con quella agricola.

Immutabile da secoli è rimasto il rito delle cénte (che taluni erroneamente chiamano cinte), doni votivi di ceri - di solito sono cento candele - addobbati di nastri colorati che li tengono insieme a creare la forma di una barca, di un castello o di un uovo, a seconda della tradizione dei singoli paesi.

Essendo le cénte tipiche del Cilento, spendiamo qui qualche parola in più anche per precisare un concetto che altrove è stato male intepretato.

Comunemente si vuol far risalire l'uso di questi doni votivi ai riti che nell'antica Grecia si celebravano in onore di Demetra, dea delle messi, durante le feste dette "Eleusinie" e "Tesmoforie". Nelle prime, che duravano nove giorni e cadevano a febbraio e a settembre, il momento culminante era dato dalla processione che la notte del quinto giorno si snodava da Atene ad Eleusi. Tutti coloro che vi prendevano parte si cingevano la testa con ramoscelli di mirto e recavano nella destra una fiaccola. Nelle Tesmoforie, invece, che si tenevano a novembre, vi si celebrava Demetra come dea delle legittime nozze; duravano cinque giorni e vi potevano prendere parte solo le donne maritate.

A Roma il culto di Demetra si identificò con quello di Cerere; anche nelle feste in onore di questa vi prendevano parte solo le matrone, vestite di bianco, che recavano in dono primizie di frutta. In arte questa divinità veniva raffigurata con nella destra una fiaccola, nella sinistra delle spighe di grano e ai suoi piedi un cesto chiuso, detto "cesto mistico".

Se a tutti questi elementi si aggiunge l'uso delle fanciulle greche di portare una cintura di lana che veniva sciolta dallo sposo la prima sera delle nozze, si hanno numerosi elementi per creare una pretesa continuità culturale tra i riti del mondo classico e quelli della religiosità popolare legati alle cénte, che certamente non va esclusa, ma indagata per altre vie.

A ben considerare, infatti, elementi in comune se ne trovano: le cénte sono sempre portate da donne, sono composte da candele (rif. alle fiaccole?) e sono tipiche della cultura rurale. Ma quanto ai doni, come si dice da parte di alcuni, recati da fanciulle vergini (cinte), si è in piena contraddizione coi riti antichi di Demetra e Cerere che, come abbiamo notato sopra, in certe occasioni erano appannaggio delle sole donne sposate. Perciò il termine italianizzato e classicheggiante di cinte va corretto e riportato all'origine dialettale di cénte. Se volessimo scoprirne il significato etimologico, potremmo rifarci al latino "inceptus", cioè "che cammina avanti"; infatti sono sempre le portatrici di cénte che aprono le processioni o i pellegrinaggi...

Di solito le mete dei pellegrinaggi sono i santuari mariani. Ma possono considerarsi tali anche le processioni mattutine con le quali si aprono le feste patronali a Capizzo, a Magliano Vetere e a Caselle in Pittari (v. oltre). I santuari sono situati su una montagna che sovrasta i rispettivi paesi, in una grotta, raggiungibile percorrendo un ripido sentiero.

Quanto ai santuari mariani, essi nel Cilento sono sette e sono accomunati dalla cosiddetta leggenda delle sette Sorelle o Madonne, che troviamo anche in altre aree culturali. Essi sono:

Madonna del Granato, Capaccio Vecchio, M. Vesole Sottano, m. 254;
Madonna della Stella, Sessa Cilento, M. della Stella, m. 1131;
Madonna della Civitella, Moio della Civitella, M. Civitella, m. 818;
Madonna del Carmine, Catona, M. del Carmine, m. 713;
Madonna della Neve, Piaggine-Sanza, M. Cervati, m. 1899;
Madonna di Pietrasanta, San Giovanni a Piro, M. Pietrasanta, m. 528;
Madonna del Sacro Monte, Novi Velia, M. Gelbison o Sacro, m. 1707.

Il culto delle sette Madonne è certamente molto antico e affonda le origini in modelli pre-cristiani (sette è numero magico-simbolico).

Diciamo anzitutto che ogni area culturale meridionale ha le sue sette Madonne, i cui luoghi di culto si trovano sempre su alture che si chiudono a cerchio prospiciente il mare, come a formare una sorta di protezione per la zona che ospita il microcosmo. E' una disposizione simbolica e non casuale in quanto è giustificata culturalmente dalla tradizione locale. Inoltre ciascun paese sostituisce la propria Madonna a quella il cui santuario risulta più lontano, tanto che ne è nato un detto: "Tutte li Marònne so' Marònne, ma chéra nòstra è cchiù Marònna!"

Delle sette, una è indicata come "brutta", perché è raffigurata con la pelle scura ed è detta "schiavóna", cioè forestiera, ma che risulta poi essere la più bella e la più amata di tutte. Per il Cilento è quella del Sacro Monte (come per l'area napoletana è quella di Monte Vergine), il cui santuario è di gran lunga più frequentato (oggi è l'unico che resta aperto per oltre quattro mesi l'anno). Esso è di origine basiliana e la Madonna che vi si venera è l'Odighitria (=che guida il cammino), cioè colei che guidò i monaci italo-greci.

Il culto della Madonna nera trova riscontro in molti popoli (si pensi Cerstokova, Guadalupe, ecc.); il suo archetipo lo si può individuare nel versetto della Bibbia che dice di lei "scura sei, ma bella".

Suggestiva è anche la tradizione che narra di S. Luca che dipinse il vero volto della Madonna di colore scuro. Nel Cilento molte sono le statue che raffigurano la Madonna nera, detta di solito "di Loreto" (a Salento, a Torraca, a Montano, a Ostigliano, ecc.), termine ottenuto italianizzando il dialettale ri lu Rito che bene esprime il riferimento al rito greco praticato ancora nel XVII secolo, che quindi propone un preciso riferimento all'immigrazione dei monaci italo-greci e alla Vergine Odighitria.

Il culto di una dea nera lo troviamo anche in modelli pagani; basti pensare alla Diana di Efeso, quella di cui si parla negli Atti degli Apostoli (19, 21 e segg.), quando S. Paolo fu scacciato dalla città.

Tutti questi riferimenti non sono certo presenti in maniera cosciente nella cultura popolare, ma ne costituiscono il substrato ed emergono poi nelle leggende e, a livello istintivo, nella gestualità.

Abbiamo accennato sopra al fatto che, dei sette santuari mariani, solo quello del Sacro Monte può vantare oggi a pieno questo nome, in quanto è meta di pellegrinaggi in tutto il periodo durante il quale resta aperto, cioè dall'ultima domenica di maggio alla prima di ottobre. Agli altri, invece, si accede solo il giorno della festa e/o anche durante i nove giorni che la precedono (novena).


Il pellegrinaggio al Sacro Monte viene realizzato almeno una volta all'anno un po' da tutti i paesi del Cilento, oltre che da compagnie provienienti da molti centri della Basilicata e della Calabria; la sua area culturale è infatti vastissima: abbraccia tutto il Cilento fino al Sele e poi fino a Potenza, Laurenzana, Castelsaraceno, Latronico, Mormanno, Santa Maria Verbicaro, Scalea. I riti sono quelli di sempre, scanditi dai canti e dalle invocazioni. Lungo i vari itinerari, i luoghi delle soste segnano i momenti rituali espressi dai canti e dalle danze, che sono ormai quasi in disuso, in un misto di sacro e profano.

La compagnia, in testa la cénta e lo stennàrdo ra Marònna (stendardo che si usa solo in questa occasione), si ricompone al Calvario, un grande cumulo di pietre trasportate per penitenza dai pellegrini (v. oltre) che segna il limite estremo dello spazio sacro; attorno ad esso i pellegrini girano tre volte, prima di iniziare l'ultimo tratto, scandito dalle edicole della Via Crucis. I canti si fanno via via più accorati, il suono delle ciaramelle, delle zampogne e degli organetti li accompagna. Giunti alla cappella, fanno tre volte il giro attorno all'edificio, toccandone i muri con la sinistra; sostano poi sul sagrato ove il rettore del santuario li accoglie con parole di benvenuto e benedice la cénta; infine varcano la soglia, molti strisciano in ginocchio fino all'altare. Dopo la messa, salgono per una gradinata dietro l'altare fino a raggiungere la statua della Madonna e ne baciano il manto. E' uso poi recarsi all'estremità del piazzale antistante la cappella e gettare delle monetine sulla Ciamba re cavallo, un grosso monolite, distante qualche metro dal costone, come buono auspicio per ritornare al santuario l'anno successivo.

I riti del ritorno sono pervasi inizialmente da una sorta di malinconia per dover lasciare la Madonna; ma lungo la strada tutti si lasciano andare come in una allegra scampagnata; mentre nell'ascesa il cammino era composto e in tono penitenziale. Molti strappano qualche ramo che porteranno nei campi per propiziare buoni raccolti.

La costruzione della strada rotabile, che permette oggi di raggiungere più agevolmente il santuario, se da un lato ha portato un maggiore afflusso di pellegrini e visitatori - non va sottovalutato anche il movimento turistico specie in agosto - ha però contribuito a dissacrare i luoghi delle soste dal rituale ad essi legato.


Il pellegrinaggio alla Madonna della Stella si esplica la domenica successiva al 15 agosto ed è praticamente in gran parte legato ai fedeli della parrocchia di Omignano. La strada rotabile, costruita di recente per servire la base radar, ha contribuito non poco ad allargare l'afflusso di visitatori e di devoti che ormai vi giungono da tutti i paesi delle pendici del Monte della Stella (Cilento Antico).

Il santuario è l'unico edificio superstite del centro fortificato di Lucania, che sorgeva sulla vetta della montagna e che a partire dal X secolo si chiamò Cilento. La struttura attuale, frutto di interventi fatti a più riprese nel XVII e nel XIX secolo, poggia sulle basi dell'edificio del 1444 che vi edificò Angelo Sombato, recuperando quanto restava della vecchia cella di S. Marco, caduta in abbandono dopo la distruzione del centro abitato durante la guerra del Vespro (1282-1382). Il pianoro sul quale sorge l'edificio appartiene al comune di Sessa Cilento, ma le cerimonie religiose sono officiate dal parroco di Omignano perché l'ultima famiglia che ebbe il patronato della cappella furono i De Feo, originari di questo centro abitato.

I riti sono ridotti ormai alla celebrazione di alcune messe in mattinata; è scomparsa anche la processione di mezzogiorno (tre giri attorno alla cappella lungo il circuito delle vecchie mura ormai abbattute) in quanto è stato usurpato lo spazio sacro con varie recinzioni. Negletta ai più, giace la Prèta Nzitàta, un monolite distante dal costone roccioso (li Mòrge) alla quale si accedeva per lanciarvi sopra qualche sassolino o monetina con un rito simile a quello del Sacro Monte. Qualche bancarella ricorda ancora le antiche accorsate fiere che quivi si tenevano due volte l'anno, il 25 aprile e il 15 agosto, quest'ultima ancora nel periodo tra le due guerre.

Indegno per un luogo sacro appare oggi lo stato della cappella, i cui muri sono assaliti da ripetitori di antenne radio e televisive; offensiva l'inerzia degli amministratori locali; preoccupante l'assenza dell'autorità religiosa, naturale - dato lo stato dei beni culturali del Cilento - quella della soprintendenza.


Il pellegrinaggio al santuario della Madonna del Carmine di Catona, si espleta, oltre che nel giorno della festa, 16 luglio, anche durante la novena. Va segnalato per una delle rarissime presenze dell'Albero della Vita, per la pietra della fecondazione (detta semplicemente `a Prèta) e per la fiaccolata serale.

La statua è tenuta nella chiesa madre durante l'anno e viene portata in processione alla cappella il giorno 7, per la novena. La sera della festa si va a prendere la Madonna; la campana della parrocchiale suona a rintocchi continui invitando i fedeli a riunirsi fuori dell'abitato ove si forma il corteo, con in testa un grande stendardo bianco. La cappella, con la luce rimasta accesa dentro per tutto il periodo della novena, resta chiusa fino all'arrivo della processione. Davanti alla porta notiamo l'Albero della Vita e, sulla sinistra La Prèta, dei quali diremo qualche parola più oltre. Quando tutti i fedeli sono entrati, viene aperta la nicchia che custodisce il simulacro; si eseguono i canti tradizionali (che sono gli stessi del Sacro Monte, cambia solo il titolo della Madonna) mentre molti si recano ad attaccare biglietti di cartamoneta su un nastro allacciato alla statua. E' ormai buio quando la processione si ricompone in una suggestiva fiaccolata; esegue prima tre giri attorno alla cappella, passando sempre tra la Prèta e l'Albero della Vita; poi ridiscende in paese e, dopo aver percorso le vie principali, si scioglie sul sagrato della chiesa madre, nella quale i portatori hanno depositato la statua, nella sua nicchia.


Il pellegrinaggio alla Madonna della Civitella si pratica il 25 marzo e il martedì dopo Pentecoste, in ricordo di un miracolo; vi si venera la Madonna Annunziata. Il primo, il più accorsato, è detto anche Juorno ri cruci perché durante la Messa vengono benedette le innumerevoli piccole croci che i pellegrini costruiscono con virgulti di castagno intrecciati in mille fogge, lungo l'ascesa; questi saranno poi portati a casa e attaccati ai muri come "benedizione" per la vita domestica e messi nei campi come auspicio di buoni raccolti.

Al santuario si accede tramite una strada asfaltata che attraversa i bei boschi della Civitella. L'ultimo tratto è costituito da un ripido sentiero che costeggia alcuni muri di contenimento del frurion di Velia (IV sec. a.C.). La cappella sorge a ridosso di molti ruderi (è in corso uno scavo) e presenta la facciata principale di stile neoclassico, con triglifi e metope finte, nella base del timpano, sostituite quest'ultime con grosse formelle di stucco. Sul sagrato si scorgono i resti di un ampio pozzo scavato nella roccia per la raccolta delle acque piovane e che verosimilmente serviva gli abitanti del frurion; attiguo è ben visibile anche il grande pozzo dell'acqua lustrale con un piccolo canale di deflusso. Sulla roccia più alta, a ridosso del pozzo, vi è eretta una grande croce in legno (questa roccia è detta `a Prèta), mentre un'altra situata al limite del piccolo pianoro, è detta `u Cantóne ru Riàvulo in quanto la tradizione popolare ravvisa in alcuni segni che vi sono incisi profondamente, le mani e le ginocchia del diavolo che fu scaraventato giù dalla Madonna del Sacro Monte che appare maestoso a sud-est. La statua in malta policroma, inasportabile, riflette i canoni dell'iconografia bizantina, ma reca il Bambino sulla destra.


Al santuario della Madonna di Pietrasanta si accede in alcune occasioni: martedì dopo Pasqua, ultimo lunedì di maggio, 3 gennaio, anniversario del miracolo che lo salvò dall'incendio appiccato dalle truppe francesi nel 1806, e il 15 agosto quando si celebra la giornata di fraternità con gli emigrati; resta aperto nei mesi di luglio e agosto ed ogni martedì sera da Pasqua ad ottobre vi si celebra la messa.

Incerte sono le origini. La leggenda narra di due pastorelli che, in cerca di un agnello smarrito, ebbero la visione della Madonna nei pressi di una fonte; l'acqua ritenuta miracolosa, ancora oggi è somministrata agli infermi. La fabbrica attuale è del XVII secolo, ma vi sono stati almeno tre interventi posteriori. L'interno con volta a botte appare di un delizioso stile barocco, adorno di stucchi; il presbiterio, molto piccolo rispetto al corpo, è dominato dalla bella statua della Madonna scolpita sul posto nella cuspide di una roccia; da cui il nome. Verosimilmente l'icona santifica il luogo e il culto della Vergine si sostituisce al primitivo culto della pietra (v. oltre). Il pellegrinaggio più imponente è quello dell'ultimo lunedì di maggio; il corteo parte dalla chiesa madre nella mattinata; molte sono le cénte che vengono portate come voto; molti percorrono l'intero tragitto a piedi nudi; ma altri preferiscono raggiungere il santuario in auto, tramite la bella strada panoramica costruita di recente.

Le cénte hanno qui una foggia particolare: sono a forma di casa e la nicchia ricavata fra le candele accoglie un putto su cui sono appuntati piccoli oggetti votivi, tra i quali almeno uno che simboleggia la grazia ricevuta. Il voto viene rinnovato ogni anno; perciò il devoto parteciperà, fin quando vivrà, al pellegrinaggio con la cénta allestita nell'anno della grazia. Su di essa si distingue un nastro bianco con su ricamata la data in cui è stata ricevuta la grazia.

Le cénte nell'ultimo pellegrinaggio (28-5-1990) erano solo sette, mentre nell'immediato dopoguerra, prima dell'emigrazione, secondo la testimonianza di alcuni pellegrini, erano anche più di cento. "Non ci sono più miracoli - ci dicono - perché abbiamo poca fede..."


PELLEGRINAGGI AI SANTUARI RUPESTRI

A Capizzo, a Magliano Vetere e a Caselle in Pittari, all'alba del giorno della festa patronale, si tiene una processione che, partendo dalla chiesa madre, raggiunge una cappella sulle alture che sovrastano i rispettivi centri abitati, ricavata utilizzando in parte delle grotte naturali.

Definisco "pellegrinaggi" queste processioni, in quanto ne hanno tutte le caratteristiche, anche se si esauriscono nel giro di qualche ora e nell'ambito di uno o due comunità; sono tipicamente rurali, legati alla civiltà contadina e sono caratterizzati da un rituale simile per molti aspetti.

Oltre al significato insito nei riti propri dell'ascesa, il santuario in una grotta (=viscere della terra) rappresenta un richiamo diretto al mondo sotterraneo che permette al devoto di avvertire con più immediatezza la presenza dell'aldilà.

Ho seguito personalmente (come anche gli altri di cui sopra) i tre pellegrinaggi, l'11 luglio 1988 a Capizzo, il 29 settembre 1988 a Caselle e il 17 settembre 1989 a Magliano Vetere, riportandone una suggestione così profonda tanto che i riti, i canti, i colori e lo scenario naturale di quei monti difficilmente potranno essere cancellati dal mio animo.

La processione viene fatta con la statua del santo, che durante l'anno non è lasciata nel santuario (eccetto che a Caselle): oggi per motivi di sicurezza (sono stati molti i furti di antichi simulacri in questi ultimi anni), ma un tempo per la ritualità propria del pellegrinaggio rurale che si esplicava soprattutto nell'andare lungo i campi e nel far vedere dall'alto le campagne al santo protettore, che poi deve ritornare al centro (chiesa madre) del luogo dell'abitazione stabile dei credenti, come nume tutelare.

Queste feste e questi pellegrinaggi, come sopra accennato, sono di cultura contadina in quanto presuppongono dei punti di riferimento fissi (campi coltivati e abitazioni strette attorno alla chiesa); la presenza del mondo pastorale si esprime solo marginalmente la sera della vigilia, quando i pastori accendono fuochi sulla montagna ad indicare che trase la festa, cioè che inizia il tempo sacro della festività. Un simile rituale lo troviamo anche la vigilia dell'Assunta nei paesi del Cilento Antico e durante alcune processioni rurali.


A Capizzo il pellegrinaggio si tiene l'11 luglio e raggiunge il santuario di S. Mauro, situato sulla dorsale sud-est del monte Chianiéllo, sull'altura detta appunto di S. Mauro, a quota 1078 m. s.l.m; lungo la stessa dorsale vi è anche il santuario di S. Lucia che i fedeli di Magliano Vetere raggiungono con una breve salita la terza domenica di settembre, a 743 m. s.l.m.; particolarmente accorsato ci sembra quello di S. Michele Arcangelo a Caselle di Pittari, a m. 598 sul monte omonimo, molto lontano dal paese, ma che è meta di pellegrinaggio due volte l'anno, l'8 maggio e il 29 settembre.

Il cerimoniale della partenza ha inizio all'alba: alcuni fedeli insieme ai portatori si radunano nella chiesa madre ai rintocchi del mattutino, mentre la banda musicale fa il giro del paese per andare a prendere le cénte, le cui portatrici attendono davanti alle rispettive case, ove offrono un rinfresco ai musicanti, ai vicini e a quanti sono lì presenti. Pervenute poi queste sul sagrato della chiesa, ove vengono accolte e benedette dal parroco, ha inizio la processione-pellegrinaggio.

Il carattere è penitenziale; molti, soprattutto donne, percorreranno l'intero tragitto scalzi. Apre il corteo un grande stennàrdo (stendardo a forma di vela, retto da un'antenna altissima), subito seguito dalle portatrici di cénte, a piedi nudi. A Magliano, oltre che dallo stendardo, sono precedute da due giovani che portano un antico quadro di S. Lucia e da due ragazze con un cesto di ceri, che offrono a chi ne fa richiesta, ricevendo un'offerta.

La forma delle cénte è varia, a seconda della tradizione del paese: a Capizzo è ovale o a castello; a Magliano, a barca, a castello o ad uovo; a Caselle in Pittari sono per lo più a castello e sui quattro lati recano immagini devozionali di santi, anche di culto moderno (es. Madonna di Pompei).

Segue la statua del santo sotto il palio, addobbata degli ori antichi; poi la banda musicale, infine i fedeli.

Il corteo imbocca la via più breve per uscire fuori dall'abitato e man mano diventa sempre più folto; procede poi necessariamente quasi in fila indiana, in quanto il sentiero si fa sempre più angusto.

A Caselle i fedeli recano ciascuno una candela e un mazzo di fiori, a Magliano una candela e a Capizzo una borraccia o una bottiglia vuota; l'uso di questi oggetti è ben finalizzato, come vedremo oltre. A Capizzo notiamo pure numerose giovani coppie che portano in braccio i loro figlioletti, anche in fasce.

Una sola sosta sarà fatta a circa metà percorso: la statua del santo viene portata all'estremità di un piccolo pianoro dal quale si possono vedere le campagne sottostanti, sempre rivolto verso il Sacro Monte che si erge maestoso in lontananza, seminascosto dalla foschia. Il prete benedice i campi, poi inizia una preghiera alla Madonna, infine si riparte.

Solo ora cominciano i canti tradizionali e la banda musicale tace. Sono di solito motivi che imitano quelli in uso nel pellegrinaggio al Sacro Monte, con testi leggermente diversi, in quanto viene sostituito solo il nome del santo protettore. E' interessante notare come il riferimento alla Madonna del Monte è sempre presente nei pellegrinaggi locali.

Cessa anche il suono delle campane della chiesa madre, che fino ad ora ha accompagnato il rito, e risponde quello della campanella del santuario.

Finalmente, giunti a destinazione, le cénte vengono adagiate ai lati dell'ingresso, lungo il piccolo viale che introduce alla grotta. La prima parte del pellegrinaggio termina con la celebrazione della messa.

I riti a questo punto si diversificano, acquistando ciascuno una propria connotazione. Diversi sono anche gli ambienti in muratura che coprono all'esterno l'imbocco delle grotte.

Il santuario di S. Mauro a Capizzo è un grande edificio, al quale si accede tramite un portale gentilizio seicentesco, sormontato da un mascherone, che immette in alti locali, il cui tetto ricopre l'ampio spazio occupato da una ripida e lunga gradinata. Nella parte superiore è ricavata la cappella, con soffitto in legno e tetti in cotto; presenta un matroneo addossato al muro laterale all'ingresso. Il presbiterio è ricavato in un anfratto di roccia, ricoperto di stucchi, tra i quali troneggia un affresco appena leggibile. L'altare, cui si accede tramite sei gradini in pietra, lunghi tutta la larghezza del presbiterio, è in fabbrica ricoperto da stucchi con qualche accenno di volute; è sormontato da una piccola nicchia nella quale è custodita - inasportabile - l'antica statua di S. Mauro, fatta di malta e mattoni, ricoperta di gesso policromo. Si racconta che questa fu rinvenuta in un antro profondo alcuni metri che ancora si può vedere dietro l'altare, a fianco al pozzo di acqua sorgiva perenne.

Il santo era comparso in sogno ad una donna di Monteforte, invitandola a rendere noto il nascondiglio. Recatosi il popolo sul posto e avendo scavato, fu rinvenuta la statua, che si cercò di trasportare a valle; ma giunti a metà percorso, si fece così pesante che i portatori non riuscirono più ad andare avanti. Sul posto il santo lasciò incisa una croce - oggi è detta Croce re miézzo - che i pellegrini passando baciano sfiorandola con la destra. Si tentò allora di costruire colà una cappella; ma il lavoro fatto di giorno veniva distrutto di notte. Così i devoti capirono quale fosse la volontà del santo e riportarono la statua nella sua grotta.

Sul tetto della cappella vi è un arco con campanella, sulla quale è incisa la data 1643 e l'effige in bassorilievo della Madonna di Costantinopoli. E' interessante notare che la stessa immagine è scolpita su una campanella datata 1609, che alcuni anni fa venne rinvenuta tra le rovine della cappella dello Spirito Santo a San Mauro Cilento, ove egualmente si venera come protettore S. Mauro; si potrebbe valutare l'ipotesi che i due culti siano legati ad una matrice comune e a fatti storici contemporanei che ci riportano all'immigrazione greca nel Cilento in seguito alla caduta di Costantinopoli del 1453.

Dopo la celebrazione della messa, i fedeli si recano dietro l'altare ad attingere l'acqua dalla sorgente; viene fatta bere anche ai bambini e parte portata a casa a coloro che non hanno potuto prendere parte al pellegrinaggio. Poi segue un rito singolare: le mamme tolgono gli abiti ai bambini - ve ne sono di ammalati - e li appendono come ex voto alle pareti del presbiterio (ne abbiamo contati un centinaio). Molti si soffermano a pregare sui gradini dell'altare, altri approfittano per godere lo stupendo panorama.


Il santuario di Santa Lucia a Magliano Vetere è costituito da due angusti ambienti, contigui, ciascuno con un altare in fabbrica. Fu ingrandito nel 1945 come ricorda una piccola lapide. Sul muro di fondo della parte nuova, vi è un affresco della santa; la cappella antica si apre a circa metà del lato sinistro, ove resiste il vecchio altare, abbandonato, che copre l'imbocco dello stretto antro. Sulla destra, dietro questo altare, due archi ciechi accolgono due antichi affreschi, solo uno dei quali è appena leggibile. Una miriade di candele accese dai giovani e disposte nelle mille piccole cavità delle pareti della roccia, creano un ambiente molto suggestivo, quasi misterioso; i più arditi si arrampicano lungo gli anfratti per parecchie decine di metri. Ai lati del corridoio centrale si scorgono molti piccoli alvei scavati nella roccia, stranamente liberi da umidità. Ci dicono che la grotta termina in una grande cavità, molto profonda, oltre la quale nessuno è mai andato.


Il santuario di S. Michele a Caselle in Pittari, è quello che conserva dal lato iconografico una memoria storica più viva e interessante. E' formato da due grotte. La prima, la più piccola, è detta di Sant'Angelo; i pellegrini vi si recano appena giunti e cospargono il pavimento di ceri accesi, soprattutto davanti al piccolo altare in fabbrica policroma, sormontato da una nicchia elegantemente decorata con stucchi a motivi floreali policromi; questa ospita una statuetta di S. Michele Arcangelo, di gusto barocco, in atto di schiacciare Lucifero. Sulla sinistra vi è un piccolo antro che i ragazzi illuminano con numerosi ceri.

L'altra grotta, più grande, è posta quasi di fronte ed è detta propriamente di S. Michele. Anche qui l'altare è in fabbrica policroma, sormontato da un baldacchino in legno e addossato ad una parete in muratura antica, sulla quale è ricavata una nicchia che ospita la statua del santo dai tratti rinascimentali, elegantemente cesellati. Sulla sinistra della nicchia centrale, scolpita su una lastra di pietra, vi è il bellissimo bassorilievo di S. Michele, con lo scudo crociato, che uccide il drago, del XII secolo. Molti segni magici - tra i quali distinguiamo la spirale - e una scritta in caratteri gotici, ornano il bordo. Anche qui il piccolo presbiterio è cosparso di ceri accesi.

Dopo la celebrazione della messa, i fedeli, con un rito simile a quello che troviamo sul Sacro Monte, sfilano davanti al bassorilievo, lo baciano stendendo la mano destra e vi depongono davanti o a fianco il mazzo di fiori che hanno portato dal paese: alla fine avranno letteralmente ricoperta l'icona.

I riti del ritorno sono meno austeri. I canti si eseguono fino al luogo dove è stata effettuata la sosta durante la salita. Nell'ultima parte del percorso, molti dal paese vanno incontro ai pellegrini con bibite e dolci locali che offrono come ristoro ai portatori della statua e alle portatrici di cénte. Alle prime case del paese la processione si ricompone, si aggregano altre cénte e numerosi altri fedeli.

Da notare che nel pellegrinaggio di S. Michele a Caselle, la statua del santo non viene portata sulla montagna ma, da tutti coloro che sono rimasti in paese, viene accompagnata incontro ai pellegrini che ritornano dal santuario. Fuori dall'abitato i due cortei si fondono e, dopo una breve omelia tenuta dal parroco, la processione percorrerà le vie del paese e si scioglierà a mezzogiorno con la messa solenne. A Magliano e a Capizzo, invece, il pellegrinaggio termina nella chiesa madre e la processione solenne sarà fatta in serata.


A titolo di completezza, citiamo anche altri due pellegrinaggi a santuari rupestri. Il primo ha per destinazione la grotta di S. Elena a Pruno, sulle pendici sud-ovest del M. Rotondo, a quota 849 s.l.m., e si tiene la domenica successiva al 29 giugno, con partenza in mattinata da Laurino; la strada rotabile permette di accedervi agevolmente, ma se ne va perdendo ormai la ritualità. L'altro, relativo alla grotta di S. Michele Arcangelo sul M. Ausinito (m. 1120), è ormai caduto in disuso da circa quindici anni; si teneva l'8 maggio e vi partecipavano soprattutto i devoti di Valle dell'Angelo.


Tracce del culto delle pietre e dell'Albero della Vita

Spesso legata alla sacralità dei santuari, è rimasta la memoria di antichi riti che ormai rivivono solo a livello inconscio nella gestualità dei fedeli, quando non è scomparso del tutto anche il ricordo. In particolare vanno considerate le tracce che ancora affiorano dei riti di fecondazione legati al culto preistorico delle pietre e dell'Albero della Vita, la cui simbologia è stata a pieno accolta nell'escatologia cristiana.


IL CULTO DELLE PIETRE E I RITI DI FECONDAZIONE

L'idea originaria e implicita di questi culti preistorici, era che le pietre potessero fecondare le donne sterili. Oggi quasi tutte le cerimonie relative sono scomparse: è rimasto, però, a livello inconscio, quel che vi era di essenziale, cioè la fede nella virtù fecondatrice delle pietre. La credenza viene giustificata da leggende, anche recenti, o da interpretazioni cristiane: un santo si è fermato su quella roccia, una croce vi è stata eretta sopra, vi è accaduto un miracolo, ecc.

Negli spazi sacri dei santuari cilentani o lungo i percorsi che ad essi portano, troviamo numerose tracce di questi elementi, rimaste soprattutto nella toponomastica. Lungo la vecchia strada che porta al santuario del Sacro Monte vi è una località detta Manto ra Marònna dove, si racconta, i portatori sostarono e vi fu tagliato il manto della Madonna quando l'antica statua fu portata sulla sacra montagna. La fantasia popolare ravvisa in alcuni segni incisi su una roccia, forbici ago e ditale. A fianco a questa - ed è ciò che interessa di più per il nostro discorso - vi sono due monoliti eretti a forma di menhir, vicinissimi tra loro, tra i quali a stento passa una persona. Nei tempi antichi le donne sterili si sforzavano di passare tra questi, strofinando il ventre sulle pareti.

Sul Monte della Stella vi è una località detta Prèta ru Mulàcchio (cioè "pietra del figlio illegittimo") ove sono egualmente due menhirs e vi si praticava lo stesso rito. Anzi qui la toponomastica è chiara rivelatrice della funzione di quelle pietre: il termine "illegittimo" è usato in senso positivo, vale a dire che erano le pietre a procurare la gravidanza, dal momento che quella "legittima" era fallita.

I pellegrini che percorrono oggi i due tragitti, eseguono ancora il rito, che però ha acquistato il significato di provare la purezza d'animo nel recarsi al santuario e di buon auspicio per raggiungere agevolmente la vetta.

Ancora sul Monte della Stella, verso Est, vi è un monolite poco distante dal costone delle Morge, che un tempo costituiva l'estremo limite dello spazio sacro; esso è detto Prèta Nzitàta, cioè che ha la capacità di rendere gravida ("zita" nel dialetto locale è la sposa che ha la capacità di procreare). Un tempo le donne sterili vi si recavano e cercavano di far fermare, lanciandoli dal costone, nove sassolini in un foro alla sua sommità; se vi fossero riuscite sarebbero rimaste incinte entro l'anno. L'uso divenne poi di buon auspicio per il ritorno al santuario l'anno successivo.

La stessa credenza era legata ad un simile monolite che si trova sul Sacro Monte, detto Ciamba re cavallo; ma qui già da secoli l'antica sacralità era stata ammantata dalla leggenda del cavaliere blasfemo.

Si narra che costui, giunto al santuario come scorta del suo re, non volle inchinarsi davanti alla Madonna; anzi derideva un commilitone che, prostrato, pregava. Ma accadde che il suo cavallo improvvisamente s'imbizzarrì e cominciò a correre all'impazzata sul sagrato; infine con un balzo raggiunse la sommità di un monolite che sorgeva isolato dal costone, restando in bilico sul burrone. Vistosi in grave pericolo, il cavaliere implorò la Madonna; il cavallo subito divene mansueto e saltò sul sagrato, mettendo in salvo il suo padrone ormai convertito. A ricordo del miracolo, il monolite si chiama ancor oggi Ciamba re cavallo, dal grosso foro a forma di zoccolo che si vede alla sommità.

E' anche uso che i pellegrini raccolgano ai piedi del Sacro Monte un sasso, che porteranno fino a metà del percorso e deporranno a formare un primo grande cumulo. Un altro cumulo, detto Calvario, con eguale rito è sorto al limite dello spazio sacro del santuario, lì dove inizia la Via Crucis. La pietra, a volte scelta abbastanza grande, oggi è un segno di penitenza. Anche quest'uso è antichissimo, ma si è persa l'idea originaria del rito che presso i popoli primitivi indicava l'atto di "fissare" l'anima del morto alla terra (la Madre Terra) da cui doveva trarre nuova vita affinché non arrecasse male ai vivi. Qualche traccia di ciò è rimasta in alcuni paesi quando, all'atto di seppellire un morto, i parenti gettano nella fossa alcuni sassolini, prima quattro, simbolo della Morte, poi nove, simbolo della Vita.

L'idea della vita legata alle pietre veniva un tempo espressa anche nei giochi delle bambine con la pupa re pèzza, la bambola di stoffa, il cui "figlio" era sempre rappresentato da un sasso oblungo, avvolto in panni, che solo nella panificazione di Pasqua veniva sostituito col viccio.

Altre leggende sono legate alle pietre. Citiamo ad esempio quella che narra di come la Madonna abbia scacciato il diavolo dalla montagna destinata ad essere sede del suo santuario: da quella della Stella costui fu scaraventato su una roccia ove lasciò il segno delle zampe; essa è perciò detta ancora Prèta ru Riàvulo. Egualmente la Vergine lo scacciò dal Sacro Monte: il diavolo cadde su una roccia al limite sud-ovest del sagrato della Civitella, ove lasciò impresse le ginocchia e le mani; la pietra si chiama perciò Cantóne ru Riàvulo.

Queste leggende, per quanto ingenue e strane, forse recano la verità di un fatto storico, cioè il trionfo del Cristianesimo in luoghi nei quali anticamente vi era un insediamento pagano. Ma misteriose restano, al di là di ogni supposizione, queste testimonianze che spesso sono legate alla memoria del solo termine, `a Prèta (santuario del Carmine di Catona, Pietrasanta di S. Giovanni a Piro, ecc.).


L'ALBERO DELLA VITA

Solo in due casi in tutto il Cilento ho rinvenuto quello che un tempo era un uso diffusissimo: un palo piantato davanti ad un cimitero o al centro del sagrato di una chiesa. Il primo si trova a San Mauro Cilento ed è sempre ricoperto da immagini sacre e ai suoi piedi qualche mano pietosa vi depone dei fiori; l'altro è situato davanti alla cappella del Carmine, a Catona: è spoglio e vi sono state inchiodate alla sommità tre stecche di legno che reggono delle lampadine.

Quale è il significato arcaico di un fatto che oggi appare di per sé senza senso? L'idea originaria è che l'albero ripete in forma piccola il cosmo nella sua capacità di rigenerazione; quindi è simbolo dell'universo, perciò rappresenta la dimora della divinità, quindi l'origine stessa della vita. Nella tradizione cristiana l'albero della vita è la croce. In un bellissimo carme, il cosiddetto Verbumcàro, si canta del legno della croce che fu ricavata da un albero che era cresciuto nella valle di Giosafat (Hebron), nato dai tre semi che Seth aveva messo in bocca ad Adamo dopo la sua morte. L'albero della croce fu lo strumento di salvezza che riconciliò Dio con gli uomini (stennìa nu vrazzo nciélo e n'àuto nterra). Che ancora oggi questo culto sopravviva, è un fatto certamente singolare. Ed è meraviglioso pensare che concetti universali siano penetrati nell'animo del popolo e che in esso resiste inconsciamente l'idea della vita (eterna) legata all'albero della croce e della sacralità di un luogo al cui "centro" è piantato il palo-albero della vita del cosmo!

Altre testimonianze dell'Albero della Vita si possono ravvisare nelle croci piantate sulle rocce o sulle alture; in questo ultimo caso spesso è indicativa la toponomastica (es. Cuozzo ra Croce, `a Croce, l'Aria ra Croce, ecc.). Anche lo stendardo, che nelle processioni che si tengono nei paesi dell'interno apre il corteo, può racchiudere questa simbologia: in tal caso esso, con colori propri del santo che protegge ciascun villaggio, diventa anche il simbolo dell'unità dei fedeli di quella comunità che tende a distinguersi dalle altre negli elementi "semplici", ma che ad esse si accomuna perché reca il simbolo della stessa fede inconscia nell'Albero della Vita.

 a cura di Amedeo La Greca

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