L'ager Albenses e il fundus Avidianus
In età augustea il territorio di Avezzano si troverà inserito nella IV regione, Sabina et Samnium, ed i suoi abitanti, già iscritti alla tribù Fabia, diventeranno tutti cittadini romani del nuovo municipium albense (Cicerone, Filippiche, III, 15, 9). I vicini Marsi ex socii di Roma, ormai liberi cittadini romani, iscritti alla tribù Sergia e parte della Regio IV come gli Albensi, si dividono in tre municipi (Marruvium – S. Benedetto dei Marsi, Anxa – Luco dei Marsi e Antinum – Civita d'Antino), pur mantenendo la titolatura etnica di Marsi. I nuovi municipia sono ora retti da quattro magistrati, i quattuorviri, che si dividevano in iure dicundo, amministratori politico-giudiziari, ed aediles legati ai problemi edili (strade, edifici, mercati, ecc.). Ogni cinque anni i quattuorviri superiori effettuavano anche il censimento, assumendo il titolo di quinquennales.
Il limite meridionale territoriale del municipio albense con quello marso rimarrà segnato dal Colle Sforgiato a sud dell'Emissario romano dell'Incile come confermato da un cippo confinario del II secolo rinvenuto nelle vicinanze dell'opera idraulica romana. Esso, presente nella seconda metà dell'Ottocento nei granai del Torlonia, ma proveniente dall'area dei lavori per la costruzione dell'emissario moderno del Fucino, presentava la scritta sulla testata, sui lati della linea centrale, fpa[---] e mar[---] con la ricostruzione, proposta dal Mommsen, di f(ines) p(populi) A(lbensis) / Mar(sorum) (E.E., VIII, 176).
Intorno alla prima metà del I secolo a.C. abbiamo le prime testimonianze di un fundus Avidianus in base all'iscrizione rinvenuta nell'interno dell'abitato di Avezzano in cui compaiono dei liberti degli Avidii di Alba Fucens:
[D(is)] M(anibus).[S(acrum)] / [Ara]nius Pul[lo] / [et A]vidia Suc[ces] / [sa] Avidio Felici / [f]ilio pientissimo / qui vixit annos /XIII et meses VI / et dies VIIII / poserunt (CIL IX, n. 4024; Catalli 1998, n. 14); trad. ital. = « Sacro agli Dei Mani. Aranio Pullo e Avidia Successa posero (questo cippo) ad Avidio Felice figlio piissimo che visse 13 anni, 6 mesi e 9 giorni ».
Un Avidio Successo fu quattuorviro iure dicundo ad Alba Fucens nel I secolo a.C., come testimoniato da un'ara funeraria trovata a Cese nell'Ottocento ed ora conservata nel Museo Lapidario Comunale di Avezzano: D(is).M(anibus). S(acrum) / L(ucio).Avidio L(ucii).F(ilio).Fab(ia tribu).Suc / cesso IIIIvir(o) iur(e).d(icundo). / ………… (CIL IX, n. 3933; Catalli 1998, n. 15); trad. ital. = « Sacro ai Dei Mani. A Lucio Avidio Successo, figlio di Lucio, della Tribù Fabia, quattuorviro iure dicundo [… …] ». Il vecchio centro storico di Avezzano era, quindi parte di un fondo agrario degli Avidii albensi, proprietà agricola probabilmente dotata di una villa ed il cui ricordo sopravvisse nell'alto medioevo con le chiese di S. Clemente, S. Salvatore e SS. Trinità.
Al periodo successivo alla Guerra Sociale risalgono gli impianti delle importanti ville delle “Macerine romane” presso il casello autostradale di Avezzano, da cui proviene una testa di Apollo con capigliatura del tipo dell'Apollo Belvedere del Vaticano (Grossi 1989b, N. 12, 43 nota 19), della “Fonte Vecchia” di S. Pelino con i suoi resti monumentali e quella di Paterno, ed altre di cui conosciamo solo aree di fittili superficiali in corso di studio da parte di Herman Borghese e Carmine Malandra.
La villa di età sillana della “Fonte Vecchia” di S. Pelino, già segnalata dal Febonio, è descritta dal De Nino: « Presso l'attuale paese di San Pelino a poca distanza da Massa, anticamente doveva esistere qualche pago considerevole, in relazione colla prossima Alba-Fucense. A Valle Folcara, a nord-est dell'abitato, e a nord-ovest di Peschio Cervaro, esistevano molti muri dell'età romana, che sono stati demoliti non ha guari. Nel mascone della fontana sotto San Pelino, c'è una lapide corrosa. Ora non si conoscono che quattro lettere ASSV (Esar / Bassus. ficid / virliscu = CIL IX, n. 3934). Ancora più sotto si ammira un muraglione a grandi massi poligoni, senza cemento, lungo m. 35,25 e seguito da muro a calce, di tempo posteriore, lungo m. 10,00. In una frana verso la metà di detto muraglione, si è scoperta una vasca di laterizi, con pietra forata sul fondo. Vi sono avanzi innumerevoli di anfore e d'altre specie di vasi. Andando più in basso, nella vigna Sciarretta, di proprietà dei sigg. Jacovitti, vedonsi altri avanzi di muri senza cemento, e poi muri a calce, inoltre frammenti di antefisse, di anse, di vasi aretini e campani. A certa distanza fu rinvenuto un sepolcro a mattoni murati, con dentro uno scheletro e una moneta d'argento che andò smarrita. Pare a me che quelle mura colossali, disposte quasi a scaglione, dovevano servire a mantenere il terreno scosceso, sul quale erano edificate le case del pago. La vasca succennata può anche indicare un bagno. Tutti questi avanzi non possono ridursi ad un solo edifizio, perché occupano una grande estensione di terreno a grandi pendenze. » (De Nino 1885, 484-485).
Attualmente si vedono i resti grandiosi di una villa romana su terrazze con condotto di acquedotto visibile a monte della fontana con apertura su una bella parete in opera isodoma. Sotto la fonte è visibile un lungo muro di terrazzamento in opera cementizia, lungo 36 metri e conservato in elevato (per i primi 8 metri) per un'altezza di 4,40 metri con un interro alla base di circa 1,80 metri: sul basso è una raffinata cortina (alta 2,60 metri) di blocchi, modanati a gradino sui bordi, in opera poligonale di III maniera (spessi cm 40) in sei filari in elevato, sovrastata da un rivestimento di blocchetti di opera reticolata per un elevato di circa 1,80 metri. Sui versanti laterali si notano le risalite del terrazzo di circa 5 metri con muratura spessa cm 70. A 10,40 metri dall'angolo orientale si notano i resti di un muretto in opera incerta medievale spesso cm 40. Si tratta quindi di una grande villa romana di età sillana (metà del I secolo a.C.) dotata di ambiente termale interno e con il relativo territorio agrario sottostante (fundus Servilianus ?: Chron.Mon.Casin., II, 26, 215; II, 55, 273-274) (Grossi 1989b, n. 12, 43-44 nota 21).
Altre ville di notevoli dimensioni sono quelle della vicina Paterno, che si sviluppano su terrazze nelle località “Panciano” e nell'interno dello stesso abitato moderno. Della prima abbiamo un muro di terrazzamento in opera poligonale, salti irregolari di terreno, un condotto su sorgente ed una vasta area di frammenti fittili a quota 702 lungo la strada campestre che unisce S. Pelino Vecchio con Paterno medievale (Grossi 1989b, N. 9-10, 26). Più bassa e collegata al percorso della Via Valeria, è la villa di Paterno, posta nel fundus Paternianus e di cui abbiamo attestazioni anche in età medievale con la curtis de Paterno e la sua chiesa di Sanctae Mariae in Paterniano. Qui nell'ottobre del 1971 « durante scavi per fondazioni di un edificio privato viene alla luce una piccola struttura termale con un ambiente pavimentato in cocciopesto, un altro provvisto di sospensurae, mentre in un terzo era visibile del praefurnium. » (Iaculli 1981, 208).
A queste ville e relativi fundi sono da attribuire le necropoli presso S. Bartolomeo, Pineta lungo la “Via Albense”, Cerreto, Scalzagallo e Castello di Avezzano, testimoniate da ritrovamenti recenti ed iscrizioni: Due schiavi dal nome di Epoche e Inachus da “Scalzagallo” (“Not.Sc.” 1892, 169: Catalli 1998, n. 18); nella località “Cerreto” presso S. Maria di Loreto, un Lucio Salvius con i liberti Marco Marcio Euthyceti, Restituta e Giusta Marcia, quest'ultimi ex schiavi del nobile albense Marco Marcio Iusto che era stato veterano nell'esercito di Adriano, magistrato superiore, edile, curatore dell'Annona, dell'acquedotto di Alba Fucens e il cui fundus doveva essere nella stessa località (CIL IX, n. 3922; Catalli 1998, n. 26 e 28), infatti nella Cronaca Vulturnense è citato nell'anno 957 il luogo detto Marciano, posto nelle vicinanze di Vico « in locus qui vocatur Marcianu » (Chron.Vult., II, 285). Dall'area dell'attuale Cimitero e Vivaio della Forestale, i liberti dei Sestuleii, Ametissano, Plozia e Ametisto, della necropoli di Colle Sabulo a S. Maria in Vico (CIL IX, n. 4028; Catalli 1998, n. 44).
Dalla chiesa di S. Bartolomeo: il liberto ed “ottimo cuoco” Halicius Marcio Fausto che rivestì la carica di seviro augustale e dentroforo nel municipio albense (CIL IX, n. 3938; Catalli 1998, n. 27); i liberti e coniugi Quinto Naevio Trophino e Marcia Augenda (CIL IX, n. 4015; Catalli 1998, n. 29). Dall'interno dell'abitato: dal muro di cinta del Castello Orsini-Colonna, la Salveia, figlia di Marco, (Orlandi 1967, n.7; Catalli 1998, n. 41); la Titucia, figlia di Manio, di Via Aloysi di Avezzano (CIL IX, n. 4036; Catalli 1998, n. 47)
Dal vicino Caruscino, i “villici” dei Novii (Catalli 1998, n. 33). Conosciamo, inoltre, un Salvius Priscus, ma non abbiamo il luogo di rinvenimento (Museo 1989, n. 19; Catalli 1998, n. 75). Quindi nel territorio di Avezzano, in età imperiale romana, dovevano essere i fundi delle nobili famiglie albensi dei Marcii e Sestuleii (vicino Vico), degli Avidii, (nell'interno di Avezzano), dei Naevii e Titucii (fra Avezzano ed Antrosano) e dei Novii a Caruscino. Naturalmente dell'esistenza in loco di vere e proprie villae, riguardo ai nomina precedentemente citati, non abbiamo che diretta attestazione per i soli Marcii e Avidii di cui conosciamo la sopravvivenza toponomastica ancora in età altomedievale.
Uno sviluppo degli insediamenti Palentini e del piano di Vico può essersi verificato durante i lavori di realizzazione dell'Emissario claudiano del Fucino del 52 d.C., lavori che portarono alla creazione: dell'“Acquedotto di Angizia” che portava le acque delle sorgenti lirine del Riosonno nei Piani Palentini e sul versante fucense; del nuovo tracciato stradale della via che metteva in comunicazione Alba con Sora e Frusino per opera di Traiano nel 100 d.C.; della definitiva centuriazione dell'ager Albenses nel II secolo.
Nel 52 d.C. l'Imperatore Claudio portava a termine, oltre che il prolungamento della Via Valeria dal Fucino fino ad Ostia Aterni - Pescara - (la Claudia Valeria), il suo Emissario fucense che regolerà gli incostanti livelli lacustri con un parziale prosciugamento del Fucino, impresa idraulica che permetterà la coltivazione regolare delle terre emerse. Un lavoro colossale per l'epoca, probabilmente basato su un precedente progetto di Giulio Cesare (Svetonio, I, Iul., XLIV), voluto dall'imperatore romano, allo scopo di rendere coltivabile l'area intorno al lago e di rendere maggiormente navigabile il Liri (Dione Cassio, LX 11, 5; 33, 3-6). La durata dei lavori fu di ben 11 anni, dal 41 al 52 d.C., con l'impiego di 30.000 operai (Svetonio, V, Claud., XX-XXI, XXXII). Le difficoltà dell'impresa imperiale sono ben espresse da Plinio il Vecchio, l'unico testimone oculare dell'impresa, con l'accurata descrizione del traforo, dell'estrazione dei materiali di risulta dai pozzi con apposite macchine, la galleria scavata nella solida roccia nella quasi totale oscurità; cose che colpirono lo studioso romano che, a detta dello stesso « quae neque concipi animo nisi ab iis, qui videre, neque enarrari humano sermone possunt!», trad. ital. = « non possono essere concepite se non da chi le vide, né il linguaggio umano è capace di descriverle! » (Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 15, 124).
Nel 52 d.C., come abbiamo già detto, Claudio, con una naumachia (combattimento di navi) sulla testata dell'Incile, inaugurò l'opera che però deluse per la scarsa discesa delle acque dovuta probabilmente ad un crollo di una parte del condotto interno. Dopo alcuni mesi, avvenuta la riparazione al condotto interno, si svolse una seconda inaugurazione con lo svolgimento di giochi gladiatori, avvenimento turbato dal crollo delle opere di presa sul lago, probabilmente la diga della testata sull'Incile. Da recenti studi geologici e storico-archeologici dell'opera sappiamo che, dopo le necessarie attività di riparazione, l'Emissario entrò in funzione regolarmente permettendo di stabilizzare i livelli lacustri e rendere possibile una regolare coltivazione delle terre intorno al lago. Solo con Traiano, nel 114 d.C. ed i miglioramenti di Adriano che « Fucinum emisit », si ebbe il prosciugamento di gran parte del lago eccetto la depressione del Baciletto, fossa che rimase a testimoniare per tutta l'età antica l'esistenza del Fucino. Sui Piani Palentini, ora dotati di un acquedotto, sorsero ville rustiche ad economia agricola testimoniate da resti murari e necropoli poste sugli assi viari delle ripartizioni agricole. A controllo dell'Emissario fu addetto un distaccamento (Statio) di marinai (classiarii) della flotta pretoria di Ravenna (Letta 1991b, 501-507), mentre la cura era affidata a dei procuratori imperiali. Di quest'ultimi conosciamo Onesimo e Nobile, dei liberti imperiali incaricati di controllare il funzionamento dell'opera romana. Del primo sappiamo che eresse sulla testata dell'emissario all'Incile un piccolo tempio dedicato al culto della famiglia dei Cesari, ai Dei Lari ed al Fucino: Onesinus.Aug(usti).lib(ertus). / proc(urator). / fecit.imaginibus.et. / Laribus. cultoribus / Fucini (CIL IX, n. 3887). Del secondo conosciamo l'iscrizione funebre che era murata nell'altare della chiesa di Santo Padre in Penna del “Cunicolo maggiore” dell'Emissario: Nobilis.proc(urator) / Aug(usti) / hic.humatus. est., trad. ital. = « Nobile, procuratore dei Cesari (per l'Emissario) è qui sepolto » (CIL IX, n. 3886).
L'emissario fucense è certamente da considerare una delle più grandi opere idrauliche del mondo antico con il suo canale di presa a cielo aperto rivestito di pali di legno, il suo Incile monumentale, il canale coperto scavato nelle rocce del Monte Salviano e sulle argille dei Piani Palentini per una lunghezza di km 5.653 e dotato di ben 40 pozzi verticali, 10 cunicoli inclinati (discenderie) e testata di sbocco monumentale sul corso del fiume Liri a Capistrello (Burri 1994, 234-261). Lo sbocco sul Liri è ancora ben visibile nella località “Pisciacotta” di Capistrello con il suo alto fornice e il sentiero dell'antica “Via Traiana”, o “Sorana”, sovrastante lo stesso con il suo ponticello legato sulla destra a scavalcare “il Fossato”. Sullo stesso lato, a destra, si nota una parete di roccia (regolarizzata con tagli artificiali) che, probabilmente, doveva in antico contenere un monumento celebrativo dell'impresa imperiale di Claudio (Messineo 1979, 158).
Dell'impresa idraulica di Traiano sul Fucino abbiamo ad Avezzano una testimonianza diretta da un'iscrizione su base marmorea “ricavata” sotto l'altare maggiore della ricostruita chiesa collegiata di S. Bartolomeo di Avezzano, di cui abbiamo conoscenza a partire dal 1651. In essa vengono ricordati i lavori dall'imperatore per il miglioramento delle opere di prosciugamento del Fucino e per aver recuperato i terreni rioccupati dal lago dal cattivo funzionamento delle opere di presa: Imp. Caesari.Divi / Nervale.Fil.Nervale / Traiano.Optimo / Aug.Germanico / Dacico.Parthico / pont.max. trib. pot.XXI.im[p.XII] / cos.VI. patri. patriae / Senatus.Popolusq.Rom[anus] / ob. Reiciperatos. agros.et. possess [ores. reductos] / quos.lacus.Fucini.violen[tia.exturbarat] (Camarra 1651, 76; CIL IX, n. 3915); trad. ital. = « All'imperatore Cesare, figlio del Divo Nerva, Nerva Traiano Ottimo Augusto Germanico Dacico Partico, Pontefice Massimo, munito di tribunizia potestà per la XXI volta , [acclamato imperatore 12 volte,] console per la VI volta, Padre della Patria, il senato e il Popolo Romano (dedicò) per aver recuperato i campi e [aver ricondotto] i proprietari che la violenza del lago Fucino [aveva cacciato]». (Catalli 1998, n. 2). Non possiamo non immaginare che nei proprietari, possessores, di cui furono recuperati i campi invasi dalle acque fucensi, fossero appunto gli Avidii di Avezzano e i Marcii di Vico.
Nel 149 d.C., come testimoniato dalle fonti, per opera degli agrimensori sotto la direzione del centurione Cecilio Saturnino, fu realizzata la definitiva centuriatio albense, comprensiva delle terre fucensi emerse dal prosciugamento definitivo romano sotto Traiano e Adriano, con l'introduzione degli assi perpendicolari, kardines (nord-ovest sud-est) e la creazione di una maglia regolare di quadrati di 425 metri di lato (Chouquer 1987, 131-132; Van Wonterghem 1989, 35-36). Interessanti sono le notizie riguardanti la nuova suddivisione agraria:
« Item in mappa Albensium invenitur. Haec depalatio et determinatio facta ante d. VI id. oct. Per Cecilium Saturninum centurionem cohortis VII et XX, mensoribus intervenientibus, Scipione et Quinto Nonio Prisco consulibus. » (Liber Coloniarum, I, 244, 13-17), trad. ital. = « Analoghe indicazioni si trovano nel catasto Albense. Questa ripartizione e fissazione dei confini è stata compiuta il 10 ottobre, per opera di Cecilio Saturnino, centurione della VIIa coorte pretoria e della XXa coorte urbana, con l'intervento di agrimensori, durante il consolato di Scipione e di Quinto Nonio Prisco »;
« Albensis ager locis variis limitibus intercisivis est assignatus, terminis vero Tiburtinis, qui Cilicii nuncupantur et in limitibus costituti. Aliis vero locis sacra sepulchrave vel rigires. Quorum ratio distat a se in pedes MCCL et infra. Et quam maxime limitibus est assignatus. Terminatio autem eius facta est VI id. octob. Per Cilicium Saturninum centurionem cohortis VII et vicies, mensoribus intervenientibus. Et termini a Cilicio Cilicii nuncupantur. Haec determinatio facta est Orfito seniore et Quinto Scitio et Prisco consulibus.» (Liber Coloniarum, II, 253, 5-14), trad. ital. = « Il territorio Albense in diverse zone fu ripartito con suddivisioni minori, mediante termini Tiburtini [di travertino], che sono chiamati “Cilicii” e che sono posti per (delimitare i) confini. In altre zone (ci sono come confini) tempietti, sepolcri o anche tratti rettilinei. La distanza tra loro è fissata in 1.250 piedi e anche meno [371,25 metri]. E per la massima parte (il territorio) è stato assegnato e delimitato con confini precisi. Questa operazione di ripartizione è stata completata il 10 ottobre per opera di Cilicio Saturnino, centurione della VIIa coorte pretoria e della XXa coorte urbana, con l'intervento di agrimensori. E i termini di confine da(l nome di) Cilicio sono detti “Cilicii”. Questa suddivisione fu eseguita durante il consolato di Orfito il Vecchio e di Quinto Scitio Prisco.» (D'Amato 1980, 172).
Fin dalla fondazione della colonia il territorio conquistato, ormai ager pubblicus romano, era stato assegnato ai coloni in lotti regolari di forma quadrata. In origine questi lotti dovevano ospitare 100 coloni con l'assegnazione ad ognuno di un podere (heredium) di due iugera: da qui il termine di centuria assegnato al singolo “quadrato” e di centuriatio dato all'intera operazione di divisione agraria in parcelle quadrate. L'assegnazione dei singoli lotti (adsignatio) era affidata ai magistrati albensi, mentre il tracciamento dei limiti centuriali (limitatio) era compito di “tecnici specializzati”, gli agrimensori, i quali, per fissare a terra gli assi, si servivano di uno strumento apposito detto groma, uno squadro agrimensorio il cui funzionamento non differiva da quelli ancora in uso in epoca recente. Secondo le regole originali della limitatio arcaica, derivata dalla Etrusca disciplina, gli assi dovevano essere orientati secondo i punti cardinali: il decumanus maximus con andamento est-ovest ed il kardo maximus, perpendicolare al decumano, con andamento nord-sud. Ma non sempre le situazioni geografiche permettevano l'orientamento cardinale degli assi, perciò spesso si adattavano gli allineamenti agli assi stradali principali della città coloniale seguendo, più che i dettami celesti dell'aruspicina etrusca, la conformazione orografica del territorio agrario (secundum naturam loci) in modo da favorire le linee di pendenza che consentivano, per esempio, il regolare deflusso delle acque di superficie (Misurare la Terra 1983).
Analizzando le carte topografiche del territorio avezzanese, non si può che notare la sopravvivenza di questa regolare divisione agraria consolidata nel 149 d.C., soprattutto nei decumani ancora ben evidenti nelle strade che da Avezzano portano a Celano: l'attuale asse viario che dalle “Fosse di S. Leonardo porta a Via S. Andrea ed a S. Giuseppe di Caruscino; da Caruscino a “Pietragrossa” di Paterno; da S. Lorenzo, sotto Monte Salviano, al bacino fucense tramite “I Cappuccini”; nella stradina delle “Anime Sante”, ecc.
Numerose sono anche le necropoli allineate su questi assi viari come nella località “Trara” e “Incile”, S. Maria di Vico o “Campo dei Gentili”. La necropoli relativa al villaggio di Vico e delle vicine ville romane, è così descritta dal Fernique e dall'Orlandi: « In quella regione [di Avezzano] recentemente, non lontano dal territorio di Luco e dall'emissario costruito da Claudio, fu scoperto una necropoli. Forse essa si trovava presso la deviazione della Via Valeria che, da Alba Fucense, si dirigeva verso l'emissario del lago Fucino o, più lontano, fino al bosco di Angizia. Si sono rinvenuti molti sarcofagi presso il convento dei Frati Minori, ma costruiti con pietra grezza, senza alcuna iscrizione od ornamento da cui si possa dedurre un'età certa. » (Fernique 1880, 96); « Vi è in questa zona il così detto “Campo dei Gentili” ed in esso emerge il “Colle Sabulo”. Recentemente, vale a dire all'epoca del prosciugamento del lago Fucino per opera del Principe Torlonia, venne alla luce una necropoli pagana. Grossi, pesanti sarcofagi in pietra del Salviano, racchiudenti scheletri di persone che furono di discreta statura, ed accanto ad essi vi sono resti di spade, lance, cinture, decorazioni, vasi, ampolle, lucerne. Assoluta è la mancanza di tumoli, cippi, iscrizioni, ma circa l'epoca si è constatato che la necropoli risale a tempi posteriori ad Augusto e va oltre quelli di Claudio. … In superficie si ha memoria del rinvenimento di un cippo con epigrafe del tardo Impero, ora nel Museo Lapidario. » (Orlandi 1967, 18-19). I sarcofagi di questa località, presenti ora sul posto, nel giardino sul retro del Palazzo Comunale e Piazza S. Bartolomeo, hanno la particolarità di essere scavati in modo da poter contenere inumati messi di fianco a differenza di altri, di area albense, con deposizioni supine (Orlandi-Veri 1989, 69-70).
Le necropoli situate lungo l'allineamento di “La Trara” – Incile si dispongono lungo un diverticolo viario che staccandosi dalla Valeria nella località “S. Leonardo” o “Termine”, passando per la “Pulcina” di Avezzano, “Noce Romana” e “Trara” si ricongiungeva alla circonfucense antica all'Incile. Qui, a più riprese, dagli anni '70 fino al termine del secolo XX, sono state rinvenute tombe a cappuccina alla “Trara” e Via Alessandro Torlonia, vicino la Petogna di Luco, databili fra la fine del I secolo a.C. ed il primo decennio del secolo successivo. La necropoli della Trara, rinvenute nel 1979: « all'incrocio fra la strada che proviene dal “Vivaio Marsica” della Forestale [ex S. Maria in Vico] e la strada che da Avezzano porta allo Zuccherificio Torlonia, sul margine ovest della strada e della linea ferroviaria dello zuccherificio. Le tombe vennero alla luce durante la realizzazione del canale di scolo posto a margine della strada, a circa un metro di profondità dal piano stradale e con orientamento est-ovest. Esse furono in gran parte distrutte dal mezzo meccanico per cui sia i corredi funerari frammentati che i resti ossei erano posti sulla terra di scarico, mentre nel fondo rimanevano le testate e gran parte del fondo delle tombe. Dai frammenti fittili dei corredi riferibili a lucerne a volute in terra sigillata , olle e balsamari a bottiglina si possono datare le tombe al primo decennio del I secolo d.C. Le cappuccine erano affiancate con leggera base in malta su cui erano fissate le tegulae della tettoia (quota di base 668).» (Grossi 1989b, N. 12, 42 nota 13).
Quindi lungo la Via Valeria, sul percorso della “Via Consolare” per Anxa-Angitia, sugli assi della centuriazione e nelle vicinanze delle villae e vici, sorgono necropoli di tombe a cappuccina, relative a servi e liberti, e grandi monumenti funerari di gentes e militari di carriera locali i cui raffinati rivestimenti architettonici sono conservati nel Museo Lapidario di Avezzano ed alla “Fontana Vecchia” di Paterno. In quest'ultima località, sulla testata della fonte, sono due lastre di calcare appartenute a due edifici sepolcrali del tipo a dado della prima età imperiale romana: la prima e decorata da un bel fregio di girali vegetali, mentre l'altra è decorata alla maniera dorica con metope raffiguranti armi (Grossi 1989b, N. 12, 44 nota 26).
L'enclave montano del Velino è solcato sul lato meridionale dalla stessa Valeria da Scurcola a Paterno, mentre diverticoli si staccano verso i vicini municipia marsi ed i pascoli alti dell'Altopiano delle Rocche verso la vestina Aveia, utilizzati dalle monticazioni stagionali degli allevamenti ovini, bovini ed equini dei vici e ville locali: la parte più bassa è riservata al pascolo dei suini data la presenza numerosa di querce.
Questa definitiva lottizzazione del territorio nel II secolo deve aver fatto riferimento alla nuova acquisizione delle terre fucensi, emerse dopo i lavori idraulici sul bacino lacustre fatti sotto gli imperatori Traiano e Adriano (98-138 d.C.): in questa occasione si dovette procedere ad estendere la centuriatio albense nell'ex alveo lacustre (Letta 1994b), realizzare una nuova circonfucense e soprattutto potenziare i fundi con le loro villae più vicine alle nuove terre emerse. A fare le spese di questa nuova disponibilità di terre nel piano, furono le ville montane più lontane dal Fucino, come quella di S. Potito che fu abbandonata fra la fine del II e gli inizi del III secolo (Gabler-Redo 1991). La prova evidente della nuova divisione agraria delle terre emerse durante il II secolo c'è data dal rinvenimento fortuito nel 1969 sull'ex alveo lacustre (nel terreno dei De Rosa di Luco: Strada 45 del Fucino, appezzamento n. 3, part. 248), vicino alla “Petogna” di Luco dei Marsi, di un cippo confinario romano. Esso, del tipo a colonnina cilindrica, presentava sul vertex (sommità piatta circolare) la ripartizione dei territori agrari che vennero concessi agli abitanti di Alba, ai confinanti Marsi del municipio anxano ed al santuario di Angizia: f(ines).p(opuli).Albens(is) / et Ma/rso(rum) / An/giti(ae) (Letta-D'Amato 1975, n. 176, 287-300).
Dall'esame complessivo delle nostre attuali conoscenze, il II e III secolo vedono l'espandersi delle grandi ville ad economia agricola grazie alla disponibilità delle nuove e fertilissime terre del bacino fucense. Saranno queste ville perilacustri a sopravvivere alla crisi della struttura municipale fucense ed alle invasioni barbariche e costituire la base su cui si modellerà il sistema curtense altomedievale.
Le principali attività economiche del territorio albense, come in tutta la Marsica antica, sono in età imperiale soprattutto indirizzate verso l'attività agricola testimoniata dalle fonti con colture cereagricole, frutticole e vinicole (Plinio, Nat.Hist., XV, 83; Columella, Agric., III, 9; V, 8, 6): all'agricoltura era associata la pesca, mentre il territorio montano era utilizzato per il taglio dei boschi, la caccia, come pascolo di suini, ovini e bovini (Letta 1972; Mertens 1981), con una “transumanza verticale” stagionale, dal piano al monte.
Questo territorio agrario centuriato era attraversato da una serie di strade principali che, seguendo percorsi commerciali di età italica, furono ulteriormente potenziate dai Romani dopo la conquista del territorio e soprattutto in piena età imperiale durante i costanti lavori di prosciugamento del Fucino. L'asse primario della viabilità dell'area era naturalmente l'antica consolare Via Valeria che in età imperiale, probabilmente sotto Traiano, fu risistemata con la creazione di un raccordo fra Cappelle e Paterno, evitando così di risalire per Alba; ricordata nel medioevo come « via antiqua, seu Salara », la via che portava verso il sale dell'Adriatico, è ancora evidente nelle carte settecentesche ed ottocentesche dei locali « regi agrimensori » (ADM, C/517). Segnata lungo il percorso dal culto di Ercole Salario, di cui abbiamo attestazioni epigrafiche a Camerata di Tagliacozzo (CIL IX, nn. 3961, 4023) e nella famosa sua statua ellenistica di Alba, essa fu risistemata in età traianea con un diverticolo che permetteva dalla località “Albanello” di Magliano dei Marsi (prima di Cappelle) di raggiungere il percorso più antico a Paterno, attraversando il Cimitero di Cappelle e le località “Pratelle-Cretaro”, “Colle Pilato”, “S. Leonardo”, “Scalzagallo” e S. Pelino Nuovo (Grossi 1990b, 120-121). Raggiunto il km 118,900 della Tiburtina –Valeria, piegava verso Paterno con un posizionamento a metà fra il tracciato della linea ferroviaria e la Statale Tiburtina-Valeria fino a raggiungere il vecchio tracciato all'altezza del Casello Ferroviario di Paterno, lungo l'attuale strada che unisce la frazione avezzanese con Celano, per poi piegare ad est verso “Cellitto”. Lungo questo tratto era la villa del fundus Paternianus e “l'Arco di Paterno”, una fontana d'età romana ornata da due getti a testa di leone, andata distrutta con il terremoto del 1915 (Orlandi 1967, 232).
Altro importante asse viario era la “via del mercenariato”, di cui abbiamo già detto, che in età repubblicana con un modesto battuto e con un percorso di mezzacosta sul versante orientale della Val Roveto, da Alba Fucens portava a Sora, Atina, Arce e Cassino per Capua, passando per i Piani Palentini e l'imbocco capistrellano della Giorgia. Definita dai studiosi belgi « route de Campanie » (Mertens 1969, 43), essa fu rifatta e sistemata in modo adeguato da Traiano nel 100 d.C. con un nuovo tracciato lirino di fondovalle e un collegamento con Frusino (Frosinone) come risulta da un miliario trovato a Cappelle nel ‘700: LVI / [imp(erator) Ca]esar / Nervae filius / [Nerva] Traianus / [Aug(ustus) Germanicus. / pontifex maximus. / tribunizia protestate IV.co(n)s(ul)III.pater patriae. / facientum curavit. = trad. ital. « 56 (miglia). L'Imperatore Cesare Nerva Traiano, Augusto, Germanico, figlio di Nerva, pontefice massimo, all'epoca della sua quarta potestà tribunizia e nel suo terzo consolato, padre della patria, curò che fosse fatta (questa strada).» (Donati 1974, 25, 186-187; Grossi 1990b, 122).
In origine il miliario di Cappelle era stato attribuito erroneamente al percorso della Via Valeria, ma la numerazione del 56° miglio non corrispondeva realmente alla distanza fra Roma e Cappelle, ma alla via della Campania, come giustamente riferisce il Van Wonterghem: « Un altro miliario, scoperto a Cappelle, risale all'inizio del regno di Traiano (100 d.C.). Nella sua prima pubblicazione, fatta dal Garrucci, viene anche dato il numero d'ordine LVI, non ripreso nel C.I.L. Visto che il 56° miliario della Via Valeria, datato nel 97 d. C., fu trovato prima di Tagliacozzo, si pone il problema dell'appartenenza di quello di Cappelle. Infatti, neanche accentando la teoria del Radke riusciremmo ad inserire questo miliario tra quelli della Via Valeria, perché seguendo i suoi calcoli non arriveremmo in questi paraggi a 56 miglia dall'agro romano (il numero tramandato dal Garrucci), ma soltanto a circa 51 miglia. Del resto, se fosse appartenuto alla via Valeria, l'imperatore Traiano avrebbe menzionato il fatto che egli ultimava un'opera del suo predecessore, come fece su alcuni miliari della via Appia. D'altra parte Cappelle è situata non già sulla via Valeria, ma su una strada che da Alba Fucens va in direzione della valle del Liri. Non è dunque escluso che il miliario di Cappelle appartenga a questo collegamento tra la via Latina e la via Valeria, da Frusino o Fregellanum (?) ad Alba Fucens, passando per Sora e la valle del Liri. Le 56 miglia coincidono perfettamente con la distanza tra la via Latina (Frusino o Fregellanum) e Cappelle. Del resto non è improbabile che Traiano, di cui sono noti i lavori alla via Latina (presso Ferentino e al ponte sul Liri presso Fregellanum), alla via Sublacensis e all'emissario del Fucino, abbia anche, nei primi anni del suo regno, sistemato la strada della valle del Liri.» (Van Wonterghem 1983, 9-11).
La strada descritta, ancora in parte segnalata da percorsi moderni e visibile nelle foto aeree, uscendo dalla “Porta Massima” di Alba Fucense raggiungeva i Piani attraversando i colli Mucino e Morese, poi Cappelle sul versante ovest fino alla Stazione Ferroviaria e le “Grotte di S. Felice” con la collina detta “Castello”, dove era il castello di Ponte e la chiesa di S. Felice in Monticello (attuale Serbatoio idrico di Cappelle). Da quest'ultima località piegava per Cese per poi arrivare al valico di Capistrello attraversando le località “Casale di S. Basilio”, la villa rustica romana de “i Casareni” di Iudici, “Ponte Rotto” sul torrente Rafia, “Pescina” e “S. Pietro” presso il Cimitero di Capistrello (ex monastero benedettino femminile di S. Antonio): quindi lungo l'attuale strada che mette in diretta comunicazione Cese con Capistrello. Sul tratto fra Cappelle e Cese, a contatto con il muro della proprietà Irti, sono ben evidenti i resti di un terrazzamento a monte in opera poligonale della stessa strada: sull'altro versante, sui margini del percorso attuale, sono numerosi blocchi sconvolti che attestano l'esistenza di sostruzioni sul versante a valle.
Altra strada, ma di minore importanza, era la cosi detta “Via Consolare”, strada che attualmente unisce Avezzano con le discenderie maggiori dell'Emissario di Claudio, tracciato viario dell'ager Albenses di origine repubblicana che univa Alba Fucens con Anxa-Angitia, segnalata da necropoli, vici, santuari e ville romane lungo il percorso. Uscendo dalla “Porta Sud” di Alba Fucens scendeva per “Palombara” e “Noce Leone” (dove incrociava il raccordo della Valeria di età traianea) e, per le località “Quercie”, “Termine”, “Tre Conche”, raggiungeva il “Borgo Pineta” di Avezzano. Da qui, per l'attuale asse di Via Albense, giungeva alla vecchia porta medievale del centro storico di Avezzano (S. Felice, poi detta di S. Rocco). Usciva, poi, per Porta di S. Francesco raggiungendo la chiesa di S. Nicola, S. Antonio e S. Lorenzo in Vico. Da S. Lorenzo si divideva in due bracci: il primo in direzione dell'Incile verso Luco, il secondo per il valico di Monte Salviano in direzione di Capistrello e Luco per via montagna. Lungo questo antico asse viario sono allineate le ville delle “Macerine romane”, di Avidio-Pantano, il santuario ad Ercole di S. Nicola, la villa di Marciano ed il vicus di Arrio. Necropoli di tombe a cappuccina sono segnalate nelle località “Termine”, Borgo Pineta”, “Cerreto”, “Parco” ed Incile. Per le tombe di Borgo Pineta ed Incile abbiamo una migliore documentazione, perché rinvenute in epoca più recente e sottoposte a scavo.
Il primo gruppo tombale di Borgo Pineta, rinvenuto nella primavera del 1978 durante i lavori per la rete fognante, nel mezzo della strada e vicino alla Piscina Comunale, si componeva di due tombe a cappuccina fittile « affiancate longitudinalmente ed orientate nord-sud. Del corredo, probabilmente asportato nel momento della scoperta, rimanevano (tomba 1) solo dei piccoli chiodini di ferro, probabilmente relativi a sandali, posti ai piedi dell'inumato. Ben conservati i resti ossei relativi ad un inumato maschio di età adulta (tomba N° 1) e probabilmente una donna (adulta?) (tomba N° 2). La disposizione degli inumati era con la testa a sud e piedi a nord con braccia sui fianchi e gambe parallele affiancate.». Queste tombe rappresentano una tipologia molto diffusa nell'ager Albenses (Avezzano, Paterno e Celano) con cappuccina formata da muretti perimetrali in opera laterizia, base in malta, embrici accostati con coppi di raccordo e colata di malta superiore (Grossi 1989b, N. 12, 43 nota 14).
Un nutrita necropoli fu trovata nell'800 lungo la “Via Consolare” di S. Nicola (ora Via San Francesco), all'altezza della Madonna di Loreto e S. Antonio Abate, con il rinvenimento di numerose tombe a cappuccina fittile, dello stesso tipo rinvenuto a Borgo Pineta e con corredi databili in età giulio-claudia (“lucertole di creta”?, monete in bronzo come obolo a Caronte, orecchini, collane ed anelli in ferro con castone in pietra dura) (Iatosti 1876, 29-30).
Il secondo complesso tombale di tre cappuccine fu rinvenuto nel 1979 durante la realizzazione della strada allacciante delle strade N° 1 (Circonfucense) e Provinciale Luco-Avezzano, a circa 100 metri dalla rotatoria posta in corrispondenza del km 5 della Provinciale: « Poste a quota 667 con orientamento nord-sud in posizione longitudinale rispetto al pendio e con corredo frammentario composto da balsamari fusiformi ed a bottiglina con fondo schiacciato in vetro, olle acrome e lucerne a volute; materiali databili alla fine del I secolo a.C. » (Grossi 1989b, N. 12, 43-43 nota 13).
L'analisi dei sistemi viari e delle sue testimonianze vicine, evidenzia l'importanza che l'area fucense assunse per le comunicazioni fra il Lazio, Campania ed Abruzzo nel periodo antico ed anche della cura che Roma attuò nel miglioramento dei percorsi principali. Ma quest'efficiente e collaudato sistema d'infrastrutture viarie era ormai avviato a collassare sul finire del mondo antico, date le crisi economiche che interessarono l'Impero Romano a partire dal III secolo.
Nel tardo impero, nella seconda metà del IV secolo, la Marsica fu interessata da un terribile terremoto che provocò, oltre le prevedibili distruzioni urbanistiche nei centri municipali, l'interruzione del canale di presa a cielo aperto ed il crollo delle opere sulla testata dell'Incile dell'Emissario romano sul Fucino. Le recenti ricerche di Carlo Giraudi dell'ENEA C.R.E. hanno dimostrato che nel tardo impero romano il canale all'aperto fu diviso in due tronconi da due faglie provocate da un forte terremoto: la faglia più interna al lago provocò una contropendenza sul canale verso Pescina, causando il lento insabbiamento dello stesso (Giraudi 1991, 35-36). La data del terremoto è stata ora precisata dal Letta in un suo recente studio e collocata verso l'anno 375 d.C. come documentato anche dalle pesanti distruzioni segnalate a Benevento per questa data (Symmaco, ep., I, 4). La testimonianza di un terremoto che segnò la prima fase di abbandono dell'insediamento urbano sul finire del IV secolo, è attestata anche ad Alba Fucens, secondo il Mertens, in base a livelli stratigrafici datati da monete di Costanzo II e Valente riferibili nell'arco compreso fra il 346 e il 367 d.C. (Mertens 1991, 388). Il Letta ha invece dimostrato che i livelli stratigrafici e le monete datano il terremoto poco dopo la metà del secolo poiché nella città è presente un miliario di Magnenzio del 350-352 ed ancora nel 362 d.C. si dedicavano sul foro di Alba opere pubbliche, come documentato da un'iscrizione lì rinvenuta (CIL IX, n. 3921): quindi il terremoto che determinò la fine del funzionamento regolare dell'emissario romano va datato fra il 362 e il 380 d.C. (Letta 1994b, 210).
Gli stessi fenomeni di restauro e ricostruzioni di edifici in relazione del terremoto gia descritto, sono presenti nei municipia marsi del bacino fucense. A Marruvium (S. Benedetto dei Marsi), i recenti scavi hanno evidenziato le trasformazioni di alcuni edifici pubblici nell'inoltrato IV secolo, trasformazioni datate da monete di Valente (314), Costanzo II (335-361), Graziano (375-383) e Costante (408-410). Alcuni ambienti termali, sul Largo Garbatella, sono utilizzati per la produzione di calce, probabilmente in occasione delle necessarie ricostruzioni successive al gravoso terremoto, e le tabernae su Via della Circonvallazione sono vistosamente restaurate: « Al IV secolo inoltrato devono riferirsi gli ultimi interventi costruttivi che attestano un probabile cambiamento di funzione dei vani e l'accecamento dei passaggi per mezzo di murature in scaglie di calcare e tegolame.» (Sommella-Tascio 1991, 459-460). Ad Anxa-Angitia vistosi rattoppi (grezzi blocchi e mattoni) sono presenti nelle murature di fondo di un ambiente con vicina cisterna posto a sud-est del tempio del “Tesoro”. Lo stesso tempio italico-romano, probabilmente dedicato ad Angizia e Vesuna, presenta sul muro a nord una vistosa lesione, probabilmente legata all'evento sismico della seconda metà del IV secolo.
Ma la fine di un mondo evoluto, di gran parte degli insediamenti e il tracollo del sistema economico della Marsica al termine del mondo antico, non può essere spiegata con i soli effetti sismici e con il lento ritorno del vecchio lago Fucino nel corso del V secolo, ma fu causata anche dalla crisi della piccola proprietà contadina e della produzione schiavistica nella Regio IV con lo sviluppo abnorme della pastorizia e dei relativi latifondi nel III-IV secolo, crisi che provocò il degrado del paesaggio agrario ed il lento ed inesorabile spopolamento delle campagne (Lloyd 1996, 14-15). Questi gravi fenomeni economici causarono forti malcontenti popolari e la diffusione del brigantaggio lungo le vie consolari ed arterie minori collegate (Lo Cascio 1990): probabilmente i classiari della flotta ravennate presenti con una stabile statio nell'area dell'Emissario fucense dovettero in questi frangenti svolgere opera di polizia lungo le vie consolari vicine (Valeria e “via della Campania”) (Letta 1991b, 507). A questi fenomeni di instabilità politica nella valle Roveto fra la fine del III ed inizi del IV secolo, è da collegare la presenza del ripostiglio monetale nel vicus antinate di S. Restituta di Morrea, composto da oltre 114 monete (“antoniniani”), riferibili ad un arco cronologico compreso fra il 274 e il 295 d.C. (da Aureliano a Diocleziano) ed interrato frettolosamente in un recipiente di terracotta nel primo decennio del IV secolo (Campanelli 1986).
Riguardo alle divisioni amministrative attuate nella tarda età imperiale, sappiamo che al tempo di Marco Aurelio, i territori di Alba Fucens e dei municipia Marsi si trovavano inseriti nella Urbica Dioecesis per poi passare nella res privata dell'imperatore Settimio Severo, nel distretto « Salaria-Tiburtina-Valeria »: con Aureliano e fino al 350 circa erano nella Valeria, suddivisione del precedente distretto; da Romolo Augustolo e fino all'arrivo dei Longobardi, insieme ai territori sabini e vestini, costituivano la provincia Valeria, provincia fondamentalmente legata ai Marsi tanto da passare nell'ordinamento ecclesiastico col nome di Marsia (Letta 1972, 145-146).
Nel frattempo, agli inizi del IV secolo, nell'area albense appaiono ufficialmente le prime comunità cristiane, visto che nell'anno 313 d.C. la religione cristiana era diventata con l'editto costantiniano di Milano, una delle religioni libere dell'Impero. Si costituiva, quindi, l'organizzazione ufficiale dell'ecclesia Catholica composta dalla massa dei semplici fedeli, detta dei laici (dal greco laos = popolo), dal clero (dal greco kleros = scelto) con i suoi ministri di culto (sacerdotes), dalla gerarchia ecclesiastica composta da episcopi (dal greco epìsckopoi = sovrintendenti) e dal Pontifex (equivalente al Pontefice Massimo romano). Con Teodosio (392 d.C.) si ha l'abolizione del paganesimo ed il culto cristiano, di fatto, diventa la religione ufficiale dell'Impero Romano.
A metà del V secolo Alba Fucens con i vicini municipia marsi, è inserita nella Provincia Valeria parte del distretto imperiale (res privata imperiale) del Picenum suburbicarum. È la stessa provincia Valeria che nel 410-412 conosce l'arrivo delle prime truppe barbariche di Alarico ed i Visigoti, che però essendo in parte “romanizzate”, non alterarono ulteriormente un quadro insediamentale già in crisi. Ma il mondo antico, fra terremoti e crisi socio-economiche generali del mondo romano, si va lentamente spegnendo e le città in fase di abbandono sono ora occupate da piccoli gruppi di cristiani che erigono i primi luoghi di culto fra le macerie o riutilizzano edifici di culto pagani. I primi segni monumentali di questo cristianesimo “urbano”, relegato nelle sole città a partire dal IV-V secolo, li abbiamo proprio ad Alba nell'edificio sacro absidato vicino la Basilica e nell'ex tempio di Apollo, ora dedicato a S. Pietro (il medievale Sancti Petri de Albe) con frammenti scultorei ed iscrizioni funerarie cristiane degli inizi del VI secolo: VI K(a)l Septe(m)r deposicio Adelberti sacerdotis, riferibile al “sacerdote” Adalberto morto sei giorni prima delle kalende di settembre, il 27 agosto); III id(u)s M(a)rt(ias) deposicio Bennedic(ti), relativa a Benedetto morto tre giorni prima delle idi di marzo, il 13 marzo. Credo che nell'« Adalberti sacerdotis », se l'iscrizione fosse attribuibile al termine del V secolo e non al VI secolo, sia riconoscibile un vescovo albense della fine del V secolo, presule cui dovevano fare riferimento le comunità cristiane degli insediamenti posti sul piano avezzanese (Grossi 1998b, 3-4, 9).
Ma il fragile equilibrio del regno goto-romano con i municipia italici in fase di abbandono, è rotto soprattutto dalle distruzioni della successiva guerra gotico-bizantina (535-553 d.C.) che determinò il collasso della struttura economica ed insediamentale. Distruzioni avvenute soprattutto nell'inverno del 537-38 quando il comandante bizantino Giovanni, mandato da Bellisario, dopo aver espugnato gli oppida goti di Ortonam e Aternum (Pescara) risalì lungo la Via Valeria per raggiungere e svernare ad Alba Fucens: trad. ital. = « Bellisario, ...., ordinò a Giovanni, figlio della sorella di Vitaliano, di svernare con i suoi ottocento cavalli presso la città di Alba, situata nel Piceno » (Procopio, Bell. Goth., II, 7). È proprio da Alba che partì l'offensiva primaverile del 538 di Giovanni che, con un accresciuto esercito formato da 2000 cavalieri, invase le terre picene abruzzesi, marchigiane ed emiliane con il saccheggio degli insediamenti, la morte di Uliteo, zio di Vitige re dei Goti, e la presa di Rimini: trad. ital. = « [Giovanni] con i suoi 2000 cavalieri, cominciò ad andare in giro per il Piceno, saccheggiando quel che gli capitava e riducendo in schiavitù i figli e le mogli dei nemici. Uliteo, zio di Vitige re dei Goti, gli andò incontro con le truppe, ma quello lo vinse, lo uccise, e sterminò quasi tutte le schiere nemiche, per cui nessuno osava più affrontarlo.» (Procopio, Bell. Goth., II, 10).
L'arrivo delle milizie bizantine nella provincia Valeria dovette portare a saccheggi, devastazioni e massacri anche a danno della popolazione civile che provocarono, come riferisce Procopio da Cesarea, una gravissima carestia nel 539 con la morte di ben 50.000 contadini nel solo Piceno (cit., II, 20): come abbiamo già visto, nell'episodio di Alba, per Procopio il Piceno è da intendere comprensivo anche della Valeria. Il ritorno del Piceno e della Valeria nelle mani di Bisanzio, non portò i benefici che le popolazioni si aspettavano visto l'esasperato fiscalismo dei rapaci funzionari bizantini nei confronti delle amministrazioni dei municipia ed anche della loro politica diretta alla ricostruzione della grande proprietà senatoriale esistente prima dell'invasione gota: « Appare ovvio che accadimenti di tale portata, con il loro seguito di atroci privazioni e sofferenze per la gente comune, non potevano non dare inizio al progressivo tracollo dell'assetto territoriale antico quale si era conservato ancora nei primi decenni del VI secolo.» (Staffa 1993, 14).
I segni di questa grave crisi che interessò la Valeria e l'area marsicana in questo periodo sono evidenti nelle fasi di abbandono riscontrabili nei centri urbani di Alba, Antino, Marruvio e Anxa. Ad Alba Fucens, sui crolli nell'area del foro vicino la basilica, causati dal terremoto del IV secolo, si edificano “baracche provvisorie” intorno ad un primitivo edificio absidato cristiano datato fra il V e il VII secolo a.C. (Mertens 1991, 388). Ad Antinum sul settore meridionale della città, nell'area vicino alla Porta Campanile, sono stati riscontrati visibili livelli di abbandono datati fra il V e il VI secolo (Gargiani-Paterna 1992, 95-102). Gli stessi fenomeni di abbandono sono riscontrabili a Marruvium nel corso della prima metà del V secolo: le ultime monete romane rinvenute sono quelle relative all'imperatore Costante (408-410), mentre ambienti termali della Via della Moletta sono trasformati in area cimiteriale che termina la sua vita nel corso del XIII secolo dato il ritrovamento nell'area di un tesoretto monetale composto da nominali argentei ed aurei normanno-svevi databili tra la seconda metà del IX secolo e la metà del XIII (Sommella-Tascio 1991, 459-460).
a cura del Prof. Giuseppe GROSSI da www.comune.avezzano.aq.it
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