indagine del Prof. Franco Nicolino
Il toponimo Bellizzi, assente sia nel dettagliato Apprezzo dello Stato di Montecorvino del 1717 che nel Catasto onciario del 1753, spunta nel Catasto provvisorio del 1827 (benché attivati dai rr. dd. del 1809 i catasti, osteggiati e alterati, furono completati solo dopo la caduta del regime murattiano). Al n°62 del Catasto provvisorio di Montecorvino Rovella troviamo, infatti, menzionate ben quattro particelle denominate Bellizze, tre indicate come erbose e una come seminatorio piano, di proprietà del barone Gaetano Bellelli (il giovanissimo tenente colonnello, nativo di Capaccio, che nel 1806 aveva comunicato al ministro Saliceti la cattura, presso Baronissi, di Fra Diavolo; mentre il figlio, Gennaro Bellelli, oltre che uomo di notevole ingegno e senatore del Regno, è pure il protagonista, con la famiglia, di un celebre dipinto di Degas esposto al Louvre). Per quel che concerne alcune indagini, ancor più stringenti ai fini cronologici, gli appezzi Bellizze e Belvedere presenti nell'estratto catastale allegato a una richiesta di mutazione di quota del 1° marzo 1818, avanzata da Gaetano Fasulo di Montecorvino, in forza di un acquisto del 1813. Si può quindi plausibilmente sostenere che il toponimo Bellizze, già attestato durante il settennato murattiano (1808-1815), non dovrebbe essere anteriore al regno di Ferdinando IV di Borbone (1759-1806). In altri termini, la testimonianza più remota da noi rinvenuta è quella presente nel decreto murattiano che autorizza la costruzione della rotabile Bellizze-Montecorvino: "Questa traversa giusta il progetto formato dal Corpo di ponti, e strade, comincerà dal sito della medesima Consolare denominato Bellizze, e condurrà a' luoghi detti l'Annunciata, e S. Maria fino all'abitato di Rovella, passando per lo Casale di S. Martino" (Napoli, 20 giugno 1811). Per tentare adesso di comprendere il significato del toponimo e il perché della sua genesi è indispensabile farsi un'idea, il più possibile fedele, delle condizioni del luogo all'epoca della sua investitura onomastica. Per dar corso a quest'esigenza diventa imprescindibile prestare ascolto ad un certo numero di testimoni attendibili che a vario titolo forniscono indicazioni preziose sullo stato della piana compresa tra il Tusciano e il Picentino. Procedendo in ordine cronologico incontriamo Carlo Ulisse de Salis, signore di Marschlins, che descrive diffusamente il paesaggio che si estende da Salerno a Paestum, da lui visitato nell'anno 1789, non mancando di deplorare l'inerzia del Governo e la negligenza dei residenti per lo stato di abbandono del territorio (Nel Regno di Napoli: viaggi attraverso varie province nel 1789). Segue l'avvedutissimo economista Giuseppe Maria Galanti che nel maggio del 1790 visita i medesimi luoghi: "il grano della pianura di Salerno e di Eboli è leggiero e di poca durata. Meglio vi riesce la coltivazione del riso, perché il terreno è bagnato da molte acque; ma questo genere di coltivazione nuoce infinitamente alla popolazione, rendendo colle acque stagnanti pestifera l'atmosfera" (Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, 1786-1794). Tra il 1797 e il 1805 il bibliotecario Lorenzo Giustiniani dà alle stampe un monumentale Dizionario Geografico-Ragionato del Regno di Napoli, in 13 tomi, dove fornisce informazioni persino su modesti corsi d'acqua come l'Asa, la Cornia o Crogna e la Frestola; nonché, sul lago Picciolo e su quello della Spineta. Durante e dopo il 1810 ci sono le organiche e circostanziate relazioni sulla provincia di Salerno compilate dal Primicerio don Gennaro Guida, per la Statistica del Regno di Napoli:"E' dolente, però fuor d'ogni dubbio che i migliori terreni della piana di Salerno, di Montecorvino e di Evoli [sic] e perfino i piani di Capaccio, le campagne più fertili ed ubertose siano addette al pascolo delle bufale". Infine, ancora tre insoliti personaggi meritano di essere segnalati: l'ufficiale Antonio Stassano, nativo di Campagna, che nelle sue minuziose cronache militari fa comprendere, tra le altre cose, la natura strategica di alcuni siti della piana (Memorie storiche del Regno 1799-1821); l'indomito e colto medico avellinese Salvatore De Renzi, che appronta una vasta Topografia Medica del Regno di Napoli (1828-1830), descrivendo con perizia le "ostinate ed annose quartane" di origine malarica che affliggevano la popolazione, e Carlo Afan De Rivera, direttore generale dei ponti e delle strade del Regno, che in Considerazioni sui mezzi da restituire il valore proprio a' doni che ha la natura largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie (1832), descrive l'impaludamento del Tusciano, dell'Asa, del Vicentino (sic) e del Forno (sic), confermando, nel contempo, lo spopolamento della pianura. In sintesi, all'nizio dell'Ottocento la piana di Montecorvino quantunque ricca di potenzialità per le sue acque e per le rigogliose coltivazioni di mais, grano, vino e olio (potenziate dall'abolizione delle risaie) si presenta insalubre e quasi disabitata a causa, principalmente, dell'allevamento brado di mandrie di bufale, che con le loro deiezioni infettano gli stagni, impinguando torme di parassiti. Seppure en passant occorre ricordare che accurate ricerche storiche su questi temi sono state condotte da Giovanni Antonio Colangelo, Loreta Mastrolonardo, Silvia Paraggio, Giuseppina Reppucci e Maria Luisa Storchi. Nonostante l'assetto generale adombrato, due singolari circostanze sono, a nostro avviso, all'origine di quel circoscritto mutamento territoriale che promuoverà, prima la nascita del toponimo Bellizze e poi, seppure lentamente e unitamente a susseguenti fattori politici e socio-economici, il suo decollo abitativo. Le vicende a cui si allude sono: la passione venatoria di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV e, successivamente e in subordine, il pellegrinaggio culturale a Paestum. Infatti, il dilagare di una nuova sensibilità estetica, a fine Settecento, induce l'intellettualità e l'aristocrazia europea a visitare i templi pestani, descritti da Winckelmann, l'apostolo del neoclassicismo, come tra i più antichi e i meglio conservati dell'arte greca. Flusso turistico parzialmente documentato dal canonico Giuseppe Bamonte che dedica ben dieci pagine della sua opera - Le antichità pestane (1819) all'elenco dei monarchi e visitatori illustri di Paestum. Pellegrinaggio reso possibile dall'esistenza di una comoda strada rotabile, Salerno-Persano, fatta costruire da Carlo III per raggiungere agevolmente un suo confortevole pied-à-terre venatorio: la Reale Casina di Caccia. Avvenimento ricordato tra l'altro da una lapide del 1754, corrosa ma ancora leggibile, collocata sotto la statua del Patrono (San Matteo) sull'imponente "Porta nova" della città, e dal sacerdote salernitano Matteo Greco nella sua Cronaca settecentesca (1709-1787); manoscritto questo che registra persino i passaggi dei reali in vacanza quasi sempre a fine anno a Persano. Peraltro, lo stesso Ferdinando IV, durante uno dei tanti soggiorni, così scrive al ministro Acton: "La strada che da Napoli qui conduce non puol essere più bella" (Persano, 1787). In tal modo, per un motivo decisamente futile, la passione venatoria dei Borboni, un segmento della via regia per la Calabria ricostruita durante il vicereame spagnolo sul tracciato dell'antica via Popilia che iniziando a Capua (attraverso Salernum, Picentia ed Eburum) collegava la via Appia con Reggio Calabria diviene "un veicolo di civiltà", creando i presupposti per la liberazione "dalla miseria e dall'isolamento [di] intere zone immettendole nel circolo vivo della storia mediante il traffico [e] il commercio, produttori sempre di benessere" (Leopoldo Cassese, 1959). Il decollo viario e la rigeneratrice eversione della feudalità (1806), che da secoli opprimeva la popolazione meridionale, promuovono gradualmente una serie di operazioni imprenditoriali che consentono al territorio di Bellizzi di diventare, all'indomani dell'unificazione nazionale, scalo ferroviario e dodicesima frazione di Montecorvino Rovella, come attestano Antonio Vismara (1871) e Domenico Tajani (Monografia del Circondario di Salerno, 1878). Ad ogni modo, non bisogna sottacere che "la vergognosa presenza di animali bufalini fra campi verdeggianti ed abitati", nella contrada di Bellizzi, non cessa del tutto neppure nel primo dopoguerra, come emerge dalla denuncia epistolare del parroco don Giuseppe Provenza, presidente della Cassa Rurale "San Martino" di Montecorvino Rovella, al prefetto di Salerno (lettera del 22 ottobre del 1920). Individuato il periodo di nascita del toponimo e seppure approssimativamente l'epoca di uno stabile e significativo insediamento abitativo sul suo territorio, ossia, in prossimità dell'incrocio della Statale 18 con la Statale 164, cerchiamo adesso di comprendere il significato del nome. Premesso che a fine Settecento le "stazioni" più rilevanti sulla strada per la Calabria erano, secondo le indicazioni di Galanti: dogana e posta a Salerno, visita doganale a Pontecagnano, osteria e posta a Picenza, ponte con osteria sul fiume Battipaglia [Tusciano] e posta a Eboli; occorre subito osservare che nonostante la copiosa fioritura di taverne lungo quest'asse Taverna Penta (già nell'Apprezzo del 1717), Taverna Nova, Taverna del Pagliarone, Tavernola ecc. (cfr. Rizzi-Zannoni, Atlante Geografico del Regno di Napoli, 1788-1812) non è dato rinvenire alcuna Taverna delle Bellezze. O, più esattamente, un'Osteria delle Bellizze la vediamo apparire solo nel fascicolo della Direzione Generale di Ponti e Strade del 20 settembre 1817, sempre a proposito del menzionato progetto della rotabile Bellizze-Montecorvino. Più congruo, quindi, interrogare la tipologia della toponomastica locale, pur nella consapevolezza di un'ardua e irresoluta "temporalizzazione". A ben vedere, accanto ad agiotoponimi (cioè, siti designati con nomi di santi: San Martino, Santa Tecla, San Vito ecc.), particolarmente significativa ci sembra l'escalation di fitotoponimi (ossia, appellativi derivati da piante: Macchia, Olmo, Pigno, Rapiciceri, oggi Rapaciceri, Spineta e talvolta Spinetta, ecc.), e geonimi (ovvero, denominazioni suggerite dalla conformazione del territorio: Fosso, Pianella, Serroni, Vallone, ecc.). Allora, Bellizze come plurale metafonizzato (nel senso del cambiamento timbrico della vocale tonica) di bellezze, sembra configurarsi come un qualificativo agro-territoriale non dissimile da toponimi antecedenti e coevi come Acqua fetente, Bosco grande e Belvedere. E se non è possibile documentare che Bellizze, designante un sopravvenuto riscatto zonale, veicoli anche un'implicita revanche rispetto a certa pestifera onomastica locale (Diavolone, Volta ladri e Vallemonio), è tutt'altro che azzardato sostenere come aveva ben intuito Luigi Gentilella che esso sia stato sollecitato dal contiguo Belvedere ("maieutico" perché già nel Catasto onciario). Toponimo, quest'ultimo, che come una sorta di ens ab alio (ovvero, che ha in altro da sé la sua ragion sufficiente, sebbene inizialmente diversa e fattuale; magari, il diroccato castelluccio di Battipaglia, il fluente Tusciano e le verdeggianti colline), sembra onomasticamente predisporre il conio di un toponimo che provveda a placare, adeguatamente, la sua conclamata relazionalità: Belvedere, ossia, sito da cui si gode una bella veduta (alias Bellizze). Congetture in sintonia con gli slittamenti grafici di Bellizzi Irpino, che indicava inizialmente il luogo dove il signore dimorava saltuariamente: "Dalle delizie signorili venne dipoi il nome di Le Bellizzi'"; casale delle Bellezze', curiosamente, non distante da un castello con la collina del Belvedere, come spiegava Scandone nelle sue opere sulla storia di Avellino e dei comuni limitrofi. Così, mentre la cartografia settentrionale (Magini, Bologna,1620) adottava la grafia Bellezze, Beltrano (Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci [sic] provincie, Napoli, 1671) e Pacichelli (Il Regno di Napoli in prospettiva, 3 voll., Napoli, 1703) indicavano Bellizze. Mentre l'avvenuta stabilità grafica è documentata dal Dizionario Geografico (1797) di Giustiniani.Considerazioni queste che inducono pure a escludere la possibilità che il nostro Bellizze, nel Principato Citra (mentre l'omonimo irpino apparteneva, invece, al Principato Ultra), derivi da un antroponimo; ossia, dalla deformazione del cognome Bellelli. Comunque, a rigore, occorrerebbero ulteriori testimonianze per stabilire in modo incontrovertibile che la denominazione Osteria delle Bellizze (che appare solo nel fascicolo contabile del 20 settembre 1817) dipende dal toponimo Bellizze (che incontriamo già nel documento del 20 giugno 1811 come sito e nell'estratto catastale del 22 febbraio 1818 come seminatorio piano). Anche se il resoconto di Johann Gottfried Seume del 1802, Passeggiata a Siracusa, alludendo a una taverna battipagliese, in sintonia con le indicazioni di Galanti, ne esclude implicitamente a quella data l'esistenza: "Siamo partiti la sera stessa [da Salerno] e ci siamo fermati la notte in un'osteria isolata sulla strada, là dove questa si biforca e va da un lato verso Paestum e dall'altro verso Eboli e la Calabria". Non è superfluo osservare che se la primogenitura tra Pagliarone (territorio) e Taverna del Pagliarone (osteria) non è facilmente decidibile, per Taverna Maratea (dal fitonimo greco-bizantino che significa "finocchio"), Taverna delle Rose, Tavernola (dal latino tabernula, cioè "piccola bottega"), ecc., si può sostenere che gli attuali toponimi scaturiscono da una primitiva designazione di omonime locande. Nell'avviarci alla conclusione è parimenti opportuno dissipare alcuni equivoci interpretativi che minacciano di compromettere la dignità del gonfalone cittadino. Deponendo ogni indugio, occorre affermare con risolutezza che lo stemma di Bellizzi possiede un'anima rammemorativa e una programmatica che i moderni dizionari araldici, sordi alle valenze archetipiche dei simboli, non sono in grado di legittimare. Pertanto, in quest'asfittico orizzonte ermeneutico può accadere che un turista incolto al cospetto delle vistose svastiche dipinte sul venusto e acefalo busto femminile in terracotta policroma, custodito nel museo di Paestum, decodifichi l'opera come la drammatica testimonianza di un atto vandalico. Ma, le cose stanno altrimenti; la perdita della testa è imputabile, secondo gli esperti, al crollo del busto che come si deduce da un avanzo di coppo attaccato sul dorso fungeva da decorazione architettonica, mentre l'immagine della svastica, prima di diventare contrassegno di virulenti movimenti antisemiti, era un simbolo universale; sovente ideogramma della rotazione solare. Tant'è che a partire dalla preistoria lo ritroviamo presso le civiltà più disparate, dal Tibet alla Cina e dal Sudan alla Guinea e persino come emblema di Cristo e sigillo sul cuore di Buddha. Ritornando allo stemma, la sua reale pregnanza scaturisce dalla consapevolezza che il territorio di Bellizzi (ante litteram), appartenendo alla fertile piana del Sele, possiede una storia e una preistoria. Per fare solo qualche cenno, già nella densa memoria L'uomo neolitico nell'agro picentino, redatta nel 1904 e pubblicata l'anno successivo, Luigi Foglia presentando, tra l'altro, "due finissime armi di selce" rinvenute presso la stazione ferroviaria di Bellizzi aveva persuasivamente concluso che "nel territorio limitato dai due fiumi, Picentino e Tusciano" era vissuto "l'uomo neolitico". Da allora, ingenti sono state le testimonianze villanoviane, greche e romane rinvenute nell'Agro Picentino (Mostra della Preistoria e della Protostoria nel Salernitano, 1962; nonché, il recente I Campani, di Luca Cerchiai, 1995). E se si pensa che i soli scavi di Pontecagnano hanno sinora restituito oltre settemila tombe e corredi funerari oltrepassanti i centomila pezzi, non si può dubitare che il genius loci di Bellizzi non sia stato "testimone" delle predazioni e dei traffici dei picentini e dei posidoniesi. Allora, pur nella consapevolezza di non poter rimuovere le plumbee coltri di oblio che avvolgono la quasi totalità del nostro passato, si può nondimeno sostenere che le spighe e le stelle a otto punte presenti nello scudo inquartato in decusse dello stemma di Bellizzi rievocano nella loro polisemia l'inebriante solarità dei greci di Poseidonia (Paestum coi romani) e la suggestiva crepuscolarità degli etruschi del picentino. Rammemorazione corroborata dalla spiga riprodotta sugli stateri d'argento della Magna Grecia e più latamente dalle raggiere raffigurate sulle monete etrusche. L'anima programmatica dello stemma di Bellizzi intende, invece, celebrare la dedizione al lavoro (spighe) e l'apertura alla trascendenza (stelle); radicamento alla terra e tensione ideale che si dispiegano sotto l'egida della bellezza (la B dorata, collocata nel triangolo superiore dello scudo, indicante Bellizzi: genealogicamente bellezza). B che designando un territorio prima incontaminato, poi avvilito da vincoli feudali e, infine, riscattato dall'operosità umana in virtù del suo dispiegamento diacronico media l'anima rammemorativa con quella programmatica. E che i simboli possiedano una potenza archetipica in grado talvolta di orientare inscientemente le scelte come quando sospinti dalla corrente si crede di nuotare è dimostrato da una serie di dati che non possono essere considerati mere coincidenze. Lettera, stelle e spighe dello stemma costituiscono una triade simbolica: il numero perfetto, e in molte civiltà l'immagine sensibile della divinità. Sommando le singole unità di questi simboli: la B, due stelle e sette spighe otteniamo il numero dieci, che dalla tetraktis pitagorica al Decalogo divino, per non dire di altre culture, è il più sacro dei numeri. Se poi si accostano a questi elementi la sovrastante corona d'argento e la sottostante "mezzaluna" di alloro e di quercia che fanno da cornice (scudo e nastri sono qui leganti simbolicamente asemantici o, tutt'al più, iposimbolici), allora, si accede al dodici, emblema della pienezza da tempi immemorabili: dalle dodici costellazioni zodiacali dei Caldei alle dodici tribù di Israele, dai dodici apostoli del Cristianesimo ai dodici imam dell'Islam, dai dodici cavalieri del Santo Graal alle dodici stelle della Comunità Europea. Nel congedare queste riflessioni non resta che formulare l'auspicio nell'interesse di Bellizzi che ricercatori più tenaci e perspicaci possano far avanzare quest'indagine più di quanto abbia saputo fare l'autore.
Prof. Franco Nicolino - Ordinario di Estetica presso la Facoltà di Filosofia dell' Università di Salerno
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